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Antonia Klugmann, il lavoro del cuoco tra creatività e ripetizione

La chef de L’Argine a Vencò riflette sul processo che c’è dietro ai piatti, dall’ideazione all’esecuzione.

Torna la concretezza – una parola molto ripetuta nei tre giorni del congresso milanese ma che a differenza di altre non rischia di annoiare, perlomeno se mantenuta nei fatti – nell’intervento di Antonia Klugmann nella sala Auditorium del Mi.Co. Ma emergono anche altri concetti fondamentali come creatività, consapevolezza, giustizia. Quella della chef friulana è infatti una riflessione importante e approfondita su alcuni aspetti del lavoro dell’alta cucina che spesso restano poco esplorati, dietro le quinte, ma che sono invece fondamentali per l’esperienza di chi siede in tavola. Se infatti ci s’interroga di sovente su come nascano i piatti – fase fondamentale ma diversa a seconda di ogni cuoco, in cui secondo la Klugmann non c’è una regola se non quella dell’autenticità nel rapporto tra cuoco e ingrediente – poco rilievo viene dato all’esecuzione materiale (se non nel caso di defaillance).

Al centro c’è il lavoro di squadra e il rapporto tra chi crea e chi esegue, due elementi imprescindibili ma di cui spesso il secondo resta nell’ombra. «Dobbiamo essere consapevoli della grande concretezza del lavoro del cuoco, che riesce ad arrivare al cliente grazie alla sensibilità del gruppo e non di un singolo. Il processo creativo è un motore che deve funzionare in maniera perfetta e accade solo se il gruppo s’impegna allo stesso modo» dice. E per far questo c’è bisogno di giustizia e di qualcuno – lo chef in questo caso, come un allenatore per una squadra sportiva – che dia un senso quotidiano alla fatica di chi lavora in cucina con ritmi intensi, in particolare nel momento del servizio in cui si concentra la “messa in opera” (e nel piatto) di qualcosa che è frutto di mesi di studio e ricerca: due ore per servire oltre 200 piatti dai menu degustazione dell’Argine per i 22 coperti del locale, il che vuol dire fare ogni piatto fino a 44 volte in un giorno per i due servizi. Una ripetitività che non deve diventare alienante ma deve trovare sempre una motivazione e un senso profondi, senza tralasciare l’aspetto emozionale. «Non c’è un gesto che non sia indispensabile per il risultato finale. I cuochi di partita sentono che i loro gesti arrivano direttamente ai clienti attraverso un’esecuzione lineare e corretta del piatto». Quando si parla di sostenibilità – tema caro alla chef, che considera “volgare” ogni tipo di spreco – allora, si deve considerare anche il tempo speso dai cuochi in cucina (che lei ha deciso di limitare, lavorando duramente per poter chiudere due giorni a settimana), e la sensazione di utilità del loro lavoro. Ma anche quello che rimarrà nella loro memoria, come la ripetizione di gesti e passaggi si ripercuoterà nella loro cucina futura, innestando magari nuovi processi creativi.

L’esecuzione, dunque, è un momento sostanziale della vita di un piatto che si rinnova ogni giorno e su cui lo chef non può mantenere il controllo totale: deve necessariamente affidarlo ai collaboratori, con cui va instaurato un rapporto di fiducia che si basa sulla formazione e condivisione dei dettagli, su un’affinità che va costruita giorno dopo giorno con l’ascolto e l’esperienza ma anche sulla fiducia e sull’accettare una certa dose di individualità. «Il nostro è un lavoro profondamente artigianale. Si parla spesso di standardizzazione dei processi anche in cucina, e ne capisco l’esigenza: se chi lavora con me sbaglia qualcosa nell’esecuzione di un mio piatto lo rovina. Ma do anche un valore straordinario alla sensibilità personale di ogni cuoco e devo riconoscere l’unicità di quello spazio, di quella intercapedine che c’è tra me e il mio collaboratore, accettando anche una possibile evoluzione, magari un affinamento della mia idea iniziale».

Tant’è che per lei non ci sono dubbi: la grande accelerazione creativa del ristorante tra i boschi del Collio è dovuta soprattutto al lavoro di squadra e alla possibilità avuta, durante i periodi di chiusura forzata, di concentrarsi su ingredienti, tecniche ma anche conoscenza reciproca dando vita a 30 nuovi piatti nell’ultimo anno. Oggi sono in sei in cucina, tutti giovani con vent’anni meno di lei e con un approccio diverso ma a cui la chef, consapevole di dipendere da loro in maniera profonda, cerca di trasmettere la sua sensibilità. E per dare degli esempi concreti di questa «vicinanza tra baratro e sublimazione grazie alle loro mani che eseguono i piatti» illustra nel dettaglio due nuovi piatti.

La zuppa di zucchine con riso, tapioca e alloro (sotto forma di olio, polvere ed estratto) sembra una ricetta “banale”, dice, ma nasconde in realtà tanti passaggi minuziosi e soprattutto un ragionamento attento sull’approvvigionamento degli ingredienti, dal proprio orto e dall’ortolano di fiducia, per avere ogni parte e ogni fase della pianta: gambi, foglie, fiore e poi le zucchine novelle, medie e grandi, ognuna delle quali dà il suo contributo.

Mentre la fesa di vacca – un taglio difficile, ma che ha scelto su consiglio del suo macellaio affidandosi alla sua conoscenza – al burro ed erbe aromatiche pone l’accento sulla manualità: ogni fetta, tagliata sottilissima, va passata velocemente nel burro chiarificato aromatizzato con salvia, rosmarino, timo e alloro, rigirandola di continuo senza farla sostare un secondo di troppo sulla placchetta calda. Solo così acquista la giusta temperatura tiepida di servizio e la consistenza data da una “cottura” leggerissima, assorbendo gli aromi e rimanendo brillante e rosata, con la burrosità esaltata e non coperta né dall’estratto di pepe né dal purè di patate servito accanto nella proporzione esatta individuata dopo ripetute prove.

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foto di Mattia Mionetto

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