Gin e vermouth: sono soltanto due gli ingredienti del cocktail più camaleontico del repertorio del bere miscelato. Di Martini, infatti — per il suo prestarsi a twist e sottili variazioni; oliva o zest di limone? Il risultato cambia, eccome — potrebbero esisterne tante declinazioni quanti sono i suoi estimatori. Quello che in oltre un secolo dalla sua invenzione non è invece mai cambiato, e sembra destinato a non farlo, è il bicchiere all’interno del quale il liquido ben ghiacciato va versato con grazia: la coppa a V dallo stelo alto presentata durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1925, in quella breve parentesi di eleganza tra le due guerre che consegnò al mondo l’Art Nouveau.
Il calice sexy e spigoloso — poi evoluto anche in versioni più sinuose come il Nick&Nora, che deve il suo nome ai protagonisti di una pellicola degli anni 30 — fu concepito per concentrare l’essenza del Martini in un sorso perfetto e sarebbe stato assunto come icona della cocktail culture tutta, nonché di quel certo stile che accompagna la dimensione del bar di qualità. A dimostrare come il progetto di un miscelato sia il risultato di un pensiero che abbraccia tanto la ricerca di una ricetta ben equilibrata quanto la sua confezione estetica. Non solo il tipo di bicchiere — con il Margarita che non prescinde dal “sombrero”, l’Old Fashioned dal tumbler basso o il Paloma da uno slanciato highball —, ma anche il formato e la qualità del ghiaccio, le nuance del liquido, l’aroma (naturale, oppure potenziato con scenografiche nebulizzazioni) e la garnish a completare il servizio: ogni elemento, per ciascuno dei sensi con cui si apprezza un drink, assume un ruolo preciso nel momento in cui, per dirla con il nume dell’architettura e del design Frank Lloyd Wright, “forma e funzione dovrebbero essere una cosa sola, unite in un’unione spirituale”.
Si continua a parlare di “spirito” osservando come «l’uomo abbia iniziato a consumare alcolici per ragioni mediche e rituali, poi per fini ludici e ricreativi e infine, oggi, per edonismo, oltre che per curiosità e ricerca — come riassume Mattia Pastori, consulente in ambito mixology e fondatore di Nonsolococktails —. Succede anche nel fine dining da qualche decennio, e i bartender contemporanei sembrano osservare i loro colleghi in cucina per concentrarsi non solo sull’ideazione di ricette liquide ma anche sul progetto di un’esperienza di scoperta che riguarda ogni aspetto sensibile, e dunque estetico, e che invita all’approfondimento e al dialogo». E di storie da raccontare, in un bicchiere, ce ne sono tante.
Nuove forme per nuove idee
È proprio con lo storytelling e la capacità di leggere umore e gusti dei clienti che Agostino Perrone e Giorgio Bargiani hanno forgiato il proprio stile. I due barman italiani, che sono insieme a Maura Milia al timone tutto tricolore del Connaught Bar di Londra, dopo aver consolidato il Martini come signature di uno dei migliori bar del mondo — lo miscelano elegantemente al tavolo in maniera sartoriale, chiedendo all’ospite di scegliere tra vodka o gin, cinque bitter maison, un blend di tre differenti vermouth e, naturalmente, twist di limone oppure oliva — hanno guardato all’arte per restituirne una versione ancora più speciale. «Un drink deve emozionare al solo sguardo, ancora prima di stupire al palato» riassumono all’unisono, raccontando la genesi del Number 11, che è arrivato nell’undicesimo anniversario del loro Martini taylor-made in una coppa punteggiata di colature di vernice d’après Pollock in quattro colori, a simboleggiare ciascuno un ingrediente: distillato, vermouth, bitter e garnish. Presentato alla Saatchi Gallery di Londra (la prima galleria europea, tra l’altro, a esporre le tele dell’artista informale), questa nuova icona di Mayfair non è che uno degli sconfinamenti del duo in ambito artistico. Eclipse, ad esempio — una proposta per l’aperitivo giocata integralmente sul monocromo — è un tributo al fotografo londinese Alan Schaller, appassionato di Negroni e cultore del black&white. Un cristallo progettato da un artigiano locale esclude del tutto il colore del drink dalla percezione visiva, concentrando l’attenzione sul profumo, il sapore e la suggestione organolettica che segue il sorso. Il risultato è un cocktail astratto nelle cromie ma del tutto classico che, al pari di un’immagine fermata fuori dal tempo per mezzo del bianco e nero, “non finisce mai di dire quello che ha da dire” (Italo Calvino a proposito, appunto, dei classici). O ancora il Magnetum, in cui la conformazione dell’ice lift replica la trama del portone d’ingresso, la stessa del logo di casa Connaught: i due liquidi si mescolano al sollevare il ghiaccio, sintetizzando in un gesto il passaggio di coloro che varcano la soglia del bar e mischiano un po’ delle loro storie a quelle di chi condivide il bancone.
Come per le correnti artistiche e le tendenze in fatto di design o musica, «anche per la mixology si possono individuare ciclicamente dei trend internazionali — spiega Federico Silvio Bellanca, giornalista votato al mondo spirits (per noi aveva scritto una riflessione sull’ascesa della mixology di provincia) — che hanno visto un passaggio dagli “effetti speciali” e dagli artifici un po’ mirabolanti degli anni Dieci verso una fase di minimalismo nelle forme e negli stili di servizio. L’ultima edizione della classifica The World’s 50 Best Bars, tuttavia, ha registrato un momento diverso, con alcune delle posizioni più alte ricoperte da locali che puntano su creatività ed espressività della presentazione». Una testimonianza efficace arriva da Simone Caporale, patron insieme a Marc Álvarez del Sips di Barcellona, la terza migliore insegna secondo gli esperti della 50 Best: «Il nostro lavoro quotidiano è quello di elaborare miscele inedite e immaginare per i nostri clienti gusti ancora sconosciuti. Per servire bene qualcosa di totalmente nuovo siamo costretti, per amore o per forza, a creare strumenti che ancora non esistono». Nel locale catalano, infatti, il ghiaccio non serve solo per abbassare la temperatura e la garnish è tutto fuorché decorazione superflua; ciascun elemento è piuttosto ripensato nel dettaglio per assolvere a uno scopo preciso e indirizzare la degustazione. Come il ghiaccio, modellato in pasticche piatte con uno stampo creato ad hoc e impilato pezzo a pezzo con foglie di limone per permettere il rilascio lento e graduale degli oli essenziali nel Mil Fulls oppure, per il Bergamot Negroni, incapsulato in una sfera di burro di cacao per evitare che si diluisca troppo in fretta. O ancora i bicchieri-scultura ideati dagli stessi bartender per suggerire una bevuta differente, ad esempio quella a piccoli sorsi del Compressed, dove la combinazione di whisky e sherry si può sorbire poco a poco da un cristallo a doppio beccuccio, appena dopo aver consumato la cialda sottile e croccante a base di pesca inserita sulla sommità del bicchiere, che prepara il palato alla degustazione. Oppure il calco in metallo realizzato per contenere il Primordial, un blend di scotch, Porto ruby e pera da sorseggiare direttamente da due mani strette a coppa, per giocare con l’archetipo stesso dell’atto dell’abbeverarsi. È il progetto globale dei drink, così, a completare la ricetta con la sorpresa di gesti e texture inaspettate, e plasmare a piacimento anche il fattore inafferrabile e prezioso per eccellenza: il tempo.
Le sfumature di un drink
Sulla selezione del bicchiere ragiona anche Martina Bonci, dal 2022 dietro il bancone del fiorentino Gucci Giardino 25 (nonché Best Bartender Under 35 agli ultimi Food&Wine Italia Awards), il cocktail bar della maison di moda dove è naturale che la proposta guardi all’eleganza e alla ricerca del dettaglio: «Ho sempre pensato che i miscelati dovessero essere concepiti come esperienze a tutto tondo e il mio è un approccio molto romantico; quando penso a un nuovo prodotto parto dall’atmosfera emotiva che voglio creare, poi individuo la tecnica più adatta e subito dopo il contenitore migliore. Un chunk per una bevanda molto fredda, una coppa per qualcosa da bere velocemente oppure un classico Old Fashioned per una miscela che prevede una quota di ghiaccio da sciogliersi via via». Per l’Exquisite — che insiste sugli aromi autunnali della zucca e dei funghi — ha scelto una forma particolare, che non è solo quella più adatta ma insieme veicola l’umore autunnale e amplifica la resa cromatica dell’arancione acceso: un tumbler basso e liscio, sostenuto da una base a croce che ricorda la legna da ardere.
Autore insieme a Federico S. Bellanca e Giacomo Iacobellis del volume Cocktail Estetica, Luca Manni ha approfondito in maniera verticale ognuno degli aspetti formali che un bravo bartender deve intrecciare nel suo lavoro, «soprattutto nell’epoca della comunicazione visiva e del dominio dei social, quando spesso la fortuna di un locale passa per l’efficacia di un feed Instagram». Nemmeno in questo caso, però, l’attenzione per gli aspetti creativi — soprattutto il colore dei liquidi, il ghiaccio (a volte intagliato a mano per adattarsi al cristallo o gestire il grado di diluizione), la fantasia della guarnizione — deve predominare sull’equilibrio e il bilanciamento generale oppure rendere complicato il consumo. Le creazioni dello “sceriffo” — in carta al Caffè Paszkowski, Caffè Gilli e al Move On di Firenze — ne dichiarano la firma in layer cromatici stratificati, nelle polveri saporite che rivestono il bicchiere (ottenute da ingredienti essiccati e triturati che completano il cocktail al momento del sorso) e a volte in cristalli composti da parti distinte, che il cliente è invitato a maneggiare per assemblare da sé il drink. Allo stesso modo, di fronte all’Our Mary di Domenico Carella — patron dal 2020 di Carico, bar con cucina e sala consacrata al Martini — si può decidere di mischiare il giallo e il rosso delle due varietà di pomodoro oppure mantenerne la bicromia intatta fino all’ultima goccia. Contrasti netti, al gusto come nel bicchiere, quelli proposti dal mixologist basato a Milano, che vuole ben concentrati «sulla parte organolettica e i singoli ingredienti. Qui lavoriamo molto sull’equilibrio di tutte le parti, poi in maniera inversamente proporzionale sulla presentazione, che vogliamo il più minimale e monolitica possibile, per sbalordire l’ospite all’assaggio». Ugualmente laboriosa è la ricerca sul tocco finale, con garnish che testimoniano l’impegno sulla circolarità e il no-waste, nella cucina-laboratorio come al bancone. La fettina di arancia del suo Santo Negroni — non semplice decorazione, ma ingrediente imprescindibile della ricetta codificata — è infatti ricavata dalla pectina, dalla polpa e dall’albedo degli agrumi che si usano in altre preparazioni. Una scelta orientata alla riduzione degli sprechi e al contempo al potenziamento del gusto, ma pur sempre estetica, nel rinunciare a elementi appariscenti e poco funzionali a favore della massima linearità.
Reinventare i classici
Da uno dei più recenti avamposti della miscelazione meneghina ci spostiamo in Galleria, a pochi metri dal Duomo, in una delle sue culle storiche. Lì, nel Bar di Passo a piano strada, Campari ha stabilito il suo quartier generale sin dal 1915, per placare la sete di generazioni di milanesi, un Campari Soda alla volta, e consolidare il rito tutto cittadino dell’aperitivo. L’arte e il design scorrono da oltre un secolo nelle vene del brand, basti pensare alla bottiglietta a cono ideata da Depero nel ’32 e diventata un simbolo del marchio, oppure all’allure Art Nouveau che ancora oggi avvolge il raffinato bar. Vicino ai manifesti originali delle campagne pubblicitarie in mostra nella rinnovata Sala Spiritello, l’head bartender del Camparino in Galleria Tommaso Cecca porta avanti il suo lavoro «come una forma d’arte ed espressione, nel gusto e nella forma», erede di una tradizione tipicamente italiana che viene riletta ogni giorno sotto la stessa lente del buon gusto. «Ci sono dei processi che stimolano la creatività, come immedesimarsi in un’opera e nel suo tempo, nella sua storia e quella del suo autore. In parte è questo il segreto, essere circondati dalla bellezza» spiega Cecca, raccontando la genesi di nuovi cocktail come Il bacio e Paesaggio quasi tipografico, nati osservando e interpretando proprio le opere della collezione Campari.
Atmosfere d’altri tempi e una cura particolare sul design degli interni «in velluto rosso e carta da parati William Morris» sono anche la cifra de L’Antiquario, nel cuore di Napoli; qui, in un’ex bottega di arredi antichi poco lontana da Castel dell’Ovo, Alex Frezza accoglie gli ospiti in giacca bianca e con fare garbato. «Ho voluto creare un bar classico che si ispirasse ai migliori locali d’Europa; quelli destinati a non passare mai di moda — racconta, riferendosi a quella precisa cultura del bere come alla linea dei cocktail —. Proponiamo il French 75 pensando all’Harris Bar di Parigi e il Gin Basil Smash come omaggio a Le Lion de Paris di Amburgo. Come garnish, per quest’ultimo, è sufficiente una foglia di basilico, sempre tassativamente freschissima». Questo non significa però rinunciare alla rielaborazione, come nel caso del Negroni, l’aperitivo per antonomasia che Frezza — forte di una formazione da architetto e una passione per l’arte che l’ha convinto ad affidare all’illustratore campano Salvatore Liberti il disegno del menu — ha ripensato intervenendo sul servizio, a bordo di una giostra. La sua personale variazione, in tre coppe in cui alle sfumature corrispondono altrettanti gusti (il Garden a base di gin alla pera, rosa e pesca, l’Umami con vermouth infuso ai funghi e pomodoro secco e infine il Sospeso, al caffè) arriva su un piccolo carosello stampato 3D in polimeri biodegradabili, che lascia libero il cliente di creare la propria personale sequenza di degustazione.
La ricostruzione filologica dei cocktail storici è parte della missione di Antonio Parlapiano, Leonardo Leuci, Roberto Artusio, Alessandro Procoli e del general manager Simone Onorati, che dal 2009 detengono un primato: quello di aver aperto le porte — o meglio, apposto una targhetta sul campanello di un vicolo di Roma — del primo secret bar in Italia, The Jerry Thomas Project (che già nel nome omaggia l’autore del ricettario How to Mix Drinks or the Bon Vivant Companion, del 1862). «La metodologia con cui sviluppiamo i nostri progetti nasce sempre da un incipit ben preciso: il twist on classic — dice Onorati —. Questo ci permette di applicare regole e ragionamenti illogici alle ricette più consolidate, dando vita a nuove versioni, possibilmente migliori». In che modo? Nelle piccole sale dove si respira aria di proibiziosimo e Golden Age, i bartender trovano ispirazione in ciò che li circonda: arte, storia, musica, gastronomia, cosmetica, profumistica e molto altro. Il tutto raccolto, shakerato, assorbito e infine distillato in menu destinati a fare scuola, come Drink Immortali, quello appena presentato. Tratti da note storiche ormai quasi dimenticate, oppure assemblati grazie alla riscoperta (o riproduzione) di ingredienti desueti, rari e difficilmente reperibili, i miscelati sono stati inoltre utilizzati, con le loro diverse texture e cromie, come soluzioni alcoliche nelle quali tingere i frammenti di tela appesi alle pareti. Per il lavoro sulla drink list — come dicevamo — si guarda innegabilmente all’arte (dentro e fuori il bicchiere, dunque) ma anche, appunto, alla storia, come nel Peat+Milk, una rivisitazione del Grasshopper dove il whisky incontra yogurt, kefir e ciliegie di montagna per evocare l’evoluzione alimentare dell’uomo, migliaia di anni fa, dallo stato di raccoglitore di frutti spontanei a quello di allevatore e consumatore di latte. A completare il cocktail, che si mostra integralmente bianco in un highball lineare, c’è della salicornia fresca: tutt’altro che puro ornamento, si tratta di un ingrediente che apporta la necessaria sapidità. D’altronde, non serve proiettarsi nel futuro prossimo della miscelazione per confermare come in ogni progetto ben calibrato non ci sia spazio che per il necessario, nel contenuto e nella forma. Sedetevi al bancone dello speakeasy romano e ordinate un Brandy Crusta, uno dei drink codificati dallo stesso professor Thomas: la combinazione di distillato, triple sec, succo di limone, sciroppo, maraschino e angostura vi verrà servita in un bicchiere bordato di zucchero e coronato da una scorza di limone lunga abbastanza da avvolgerlo del tutto. Un accorgimento affascinante, ma calibrato in realtà per far sì che la sferzata dolce e agrumata non si mescoli al liquido se non quando questo raggiunge le labbra e, infine, il palato.