Tradizione millenaria risalente probabilmente ai Fenici e poi diffusa dagli Etruschi, negli anni Ottanta del secolo scorso rischiava l’estinzione. L’influenza della criminalità organizzata sulle istituzioni aveva portato, infatti, al paradosso per cui veniva incentivata l’estirpazione delle cosiddette “viti maritate”, ovvero quel sistema di allevamento che prevede come tutore della vite un albero vivo. Per fortuna alcuni avventurosi vignaioli hanno scelto di mantenerne intatta la struttura e oggi per la ‘riserva indiana’ delle alberate di Aversa è stato avviato il processo per la candidatura a patrimonio Unesco.
VITICOLTURA EROICA
Autentici monumenti alla viticoltura eroica, queste incredibili strutture – costituite da un intreccio di tralci di vite sospesi tra alberi di pioppo – un tempo arrivavano fino a 15 metri di altezza e ancora oggi possono raggiungere i 10 metri, rappresentando con la propria presenza una tradizione e allo stesso tempo una sfida alla semplificazione. È complessa la costruzione, dato che le viti vengono legate ai filari di alberi e danno vita a vere pareti vegetali. E ancora più difficile è la gestione delle pratiche agronomiche: la potatura segue regole che consentono di mantenere intatta l’architettura della vigna e la vendemmia, a causa dell’altezza dei tralci su cui si trovano i grappoli, prevede l’uso dello scalillo, una scala a pioli lunga stretta costruita su misura della gamba dei ‘vilignatori’. Sono questi “uomini ragno” i veri protagonisti di un’epica unica e straordinaria.
L’ASPRINIO (SOTTOVALUTATO) DA VITE MARITATA
Fino agli anni Sessanta/Settanta del Novecento quasi tutto l’Asprinio era coltivato con la forma di allevamento dell’alberata aversana. Poi l’edificazione selvaggia ha fatto scempio del territorio e oggi gli 11 produttori della Doc Aversa Asprinio possono permettersi di trarre dalle alberate solo una selezione delle circa 30mila bottiglie prodotte ogni anno. Ci si potrebbe aspettare dunque quotazioni da gioielli di nicchia, invece inaspettatamente le bottiglie escono a prezzi decisamente bassi se si considera la complessità della lavorazione. Le ragioni? Probabilmente la limitata consapevolezza in termini di posizionamento sul mercato, per cui oggi non viene valorizzata l’unicità del vitigno e della forma inconsueta di allevamento, ma forse anche la fretta dell’uscita dalle cantine. Si sente, infatti, la mancanza di prospettiva storica. Sono pochissime le aziende che hanno conservato bottiglie di annate precedenti a quella sul mercato e in generale sorprende scoprire come questo vino venga concepito per la pronta beva. La degustazione di alcune referenze votate all’invecchiamento – un esempio su tutti, il seducente Santa Patena della cantina I Borboni – mette in risalto un bell’affinamento in cantina, senza la fretta che oggi sembra dominare questa denominazione.
UN TESORO NASCOSTO NEGLI ACINI
Lo sviluppo in altezza delle viti porta ad avere diversi livelli di maturazione delle uve, l’acidità è spiccata e il basso grado zuccherino porta a sviluppare una limitata gradazione alcolica. Visto dunque sotto il profilo strutturale, l’Asprinio sembra il vitigno ideale per la viticoltura contemporanea nel panorama delle uve autoctone della penisola. Se infatti molte denominazioni si trovano a confrontarsi con la difficoltà a contenere il grado in etichetta a causa del surriscaldamento del clima, questo piccolo e poco celebrato gioiello campano si nasconde pur avendo le potenzialità per emergere in verticalità. Il tempo potrebbe essere un grande alleato per la denominazione. L’acidità agrumata non scontata nel sorso fa immaginare potenzialità di invecchiamento. Certo, le tecniche di vinificazione oggi prevalenti non hanno come focus la tenuta nel tempo, eppure in controluce se ne possono immaginare le potenzialità. Oggi la lavorazione avviene principalmente in acciaio, senza alcun intervento di affinamento, e se il passaggio in legno rischierebbe di disperdere il patrimonio di tensione dell’Asprinio, potrebbe invece incuriosire l’estensione al cemento della fase di assestamento dei vini ancora giovani. L’innesco della fermentazione malolattica è apprezzato per portare un ammorbidimento del vino così teso, eppure in degustazione questo comporta una lieve perdita di tensione, che invece rimane preziosa negli assaggi che non svolgono la fermentazione e che virano verso l’idrocarburo. D’altro canto, gli acini dell’Asprinio sono ricchi di pruina e hanno un’acidità che rendono il vitigno particolarmente adatto alla spumantizzazione, una tradizione piuttosto rara per la produzione enologica del Sud. E su questa strada si stanno indirizzando diversi produttori.
PROGETTI FUTURI, VINI PRESENTI
“Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno – scriveva Mario Soldati in “Vino al Vino” -. Perché i più celebri bianchi secchi includono sempre, nel loro profumo più o meno intenso e più o meno persistente, una sia pur vaghissima vena di dolce. L’Asprinio no. L’Asprinio profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta… Che grande piccolo vino!”. A partire da questa consapevolezza, oggi il consorzio Vitica sta sviluppando un progetto articolato per la promozione dell’Asprinio di Aversa, ma è indubbio che si tratta di un percorso da costruire. Nel frattempo questi vini rimangono appannaggio di pochi intenditori. Tra le etichette da segnalare, l’Alberata di Tenuta Fontana, reso intenso e ricco da fermentazione e affinamento in anfora di terracotta per 7 mesi; l’Asprinio di Menale Carlo che regala profumi intensi di agrumi ed erbe officinali e un sorso sapido, prolungato; lo Scalillo di Drengot, che nonostante il calore seduce con la sapidità. Tra gli spumanti, incuriosiscono gli ancestrali e senza dubbio funziona meglio il metodo classico (meritano un assaggio il Cripto de I Borboni e il Brut Millesimato di Caputo, che lo fa dagli anni Ottanta).