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100 anni di Chianti Classico

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Back to the future. Cent’anni di Chianti Classico

Il primo consorzio del vino italiano festeggia un secolo di storia e rivolge lo sguardo al futuro varando un “Manifesto di Sostenibilità”, un progetto su misura per il territorio e le aziende del Gallo Nero.

Il Chianti Classico celebra un secolo di vita rilanciando in prospettiva futura. Se il 14 maggio del 1924 a Radda in Chianti furono 33 lungimiranti viticoltori a pendere in mano il destino di un territorio e di un vino, decidendo di costituire il primo consorzio del vino italiano, oggi la barra rimane dritta verso un futuro che non sia conservativo. Anzi, che possa rappresentare un passo avanti.

«A distanza di un secolo, i soci del Consorzio sono diventati 486 – evidenzia il presidente Giovanni Manetti – ma gli obiettivi che ci accomunano sono gli stessi del 1924. Proteggere il vino che nasce da un territorio altamente vocato e di rara bellezza e accompagnare i viticoltori nell’affrontare i mercati di tutto il mondo sotto l’insegna comune del Gallo Nero». Quella visione rimane dunque intatta a un secolo di distanza, con la fiducia nell’unità di intenti, nella forza della collettività, nell’aggregazione.

Storia e autorevolezza

La cosa più interessante, è che nel caso del Chianti Classico questa non è mera retorica da anniversario. Perché c’è un percorso tracciato che mostra, non senza qualche momento di appannamento, una capacità costante di innovarsi mantenendo solide le radici. Se il primo documento notarile che menziona ufficialmente il nome “Chianti” per indicare il vino prodotto nell’area a cavallo tra Firenze e Siena risale al 1398, bisogna attendere il 1716 perché il Granduca Cosimo III de’ Medici stabilisca i confini di produzione con l’area che oggi è identificata come “Classica”. E in quei confini di fatto è rimasto il “brand” del Gallo Nero, legato a un vino che ha trovato la prima descrizione dei propri connotati nella lettera con cui il barone Bettino Ricasoli descrive al professor Cesare Studiati dell’Università di Pisa la “ricetta” del Chianti: un uvaggio composto in maggioranza di Sangiovese e una quota di Canaiolo, ma anche un tocco di Malvasia bianca per i vini di pronta beva – poi il bianco è scomparso, il sangiovese è cresciuto, son entrati i vitigni internazionali.

Ecco le radici che portano i 33 “padri fondatori” a comprendere la necessità di un Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine. È il 1924 e tutto inizia con una firma tra pochi “avanguardisti”, che nel tempo trascinano una crescita costante e globale, nel segno di un’eccellenza che resiste anche al decreto ministeriale che estende la menzione Chianti a quasi tutta la Toscana. Quel Gallo Nero diventa icona ed emblema di qualità, nelle intenzioni dei viticoltori. Illuminante, in questo senso, la lezione del primo presidente del consorzio Italo del Lucchi: «Se il compratore non richiede la marca siamo noi che dobbiamo mandargliela, perché il circolare del nostro vino anche in zone vicine la diffonde e la fa nota a tutti coloro che ne vengono a contatto». È la reclàme, bellezza… che la lungimiranza dei produttori ha abbracciato spingendo le insegne del Gallo Nero a rappresentare un marchio di eccellenza a tutti gli effetti.

Le tappe successive sono state un crescendo di affermazione dell’identità: il riconoscimento ufficiale della dicitura “Chianti Classico”, l’attribuzione della Doc nel 1967 e della Docg nel 1984, il lancio del progetto Gran Selezione nel 2014 (che si è rivelato decisamente un successo di mercato e nel calice), fino all’adozione delle Unità Geografiche Aggiuntive con la zonazione del territorio di produzione.

Un manifesto di sostenibilità

Tagliando il traguardo del secolo, il Chianti Classico lancia dunque la sfida per il futuro prossimo. E ancora una volta, scegliendo di legare ancor più saldamente il vino al territorio, alza l’asticella e mette al centro sostenibilità e identità territoriale. Sono queste le parole-chiave alla base di un impegno programmatico, un manifesto di intenti per il futuro della denominazione.

«Ciò che ci pare chiaro – ha dichiarato la direttrice del Consorzio Carlotta Gori all’evento celebrativo in Palazzo Vecchio a Firenze – è che, sebbene il tema della sostenibilità sia nato come un movimento di pochi geniali imprenditori e di qualche teorico illuminato, con il passare del tempo è diventato un orientamento strategico delle imprese». E proprio dall’associazione di imprese che è il Consorzio emerge un “manifesto programmatico” che traccia le linee della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, ma anche culturale del progetto Chianti Classico per il futuro. Non solo una traccia vuota di intenti, ma un vero “codice” che per il momento viene proposto alle aziende produttrici e che ha l’ambizione – forse – di diventare un disciplinare rigoroso per estendere la sostenibilità a parametro cardine.

«Abbiamo atteso fino a oggi ad affrontare, come Consorzio, il tema così attuale della sostenibilità, per potergli dare una caratterizzazione, un’identità specifica che fosse in grado di evidenziare ed esaltare i caratteri distintivi della nostra denominazione e del suo territorio di produzione – afferma Manetti –.  Un manifesto che siamo certi i nostri viticoltori accoglieranno e renderanno vivo e attivo, fino a farlo diventare un vero impegno di sostenibilità del nostro territorio e delle sue produzioni».

Il “Manifesto di Sostenibilità” del Chianti Classico propone, infatti, una corposa serie di regole con l’intento di ridurre l’impatto ambientale tramite una gestione del territorio, delle superfici produttive e dei boschi, volta a preservarne le caratteristiche, le potenzialità, il paesaggio e la biodiversità, e di valorizzare la crescita e l’affermazione delle risorse sociali e culturali di questo territorio unico al mondo.

Non sono state presentate minuziosamente (per ora) tutte le 57 regole che compongono il “Manifesto”, ma le pennellate che la direttrice Gori ha offerto a Firenze danno l’idea di un’evoluzione che non sembra troppo lontana dalle intuizioni di Rudolf Steiner che (sarà un caso) proprio nel 1924 tracciava il profilo di un’agricoltura di impianto olistico e sostenibile poi cresciuta sotto il nome di biodinamica.

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