Quando Matteo Aloe nel 2008 discusse la sua tesi di laurea a Bologna su Davide Oldani, chef che scelse come caso studio per l’offerta dei pranzi a pochi euro, e sulla mancanza di managerialità nella ristorazione in Italia, non pensava che, a distanza di quindici anni sarebbe stato lui fonte d’ispirazione per altri laureandi. «È capitato tre o quattro volte», ammette l’imprenditore di origine calabrese che, ai tempi della scelta sulla scuola superiore, non andò all’alberghiero per un problema di distanze con il suo paese natale in provincia di Catanzaro: «Mi sono riscattato all’Università, però, iscrivendomi alla facoltà di Marketing – ricorda Matteo –, nella stessa città dove già studiava mio fratello Salvatore, lui però in Economia e Politica. Una volta laureato, sono riuscito ad avvicinarmi al mondo della cucina grazie a Mario Ferrara che mi ha accolto senza esperienza nel suo Scacco Matto».
Intanto, alle porte della città, per la precisione a Castel Maggiore, Salvatore Aloe stava lavorando nel mondo retail per aprire un centro commerciale. Fu in questa località che nel dicembre del 2010 gli Aloe decisero di inaugurare un’attività tutta loro: Berberè. «Volevamo mettere un po’ di contemporaneità nel mondo pizza – chiarisce Matteo – anche se nessuno dei due aveva mai fatto il pizzaiolo. L’idea è più nata da una ricerca di mercato. E poi ai tempi mancava una pizza buona a Bologna». Questa sincera considerazione aiuta anche a dare la misura della visione imprenditoriale della coppia che ricorda un dato interessante: «La prima pizzeria a Bologna è del 1954 e nello stesso anno a New York ce ne erano più di 6mila. Quando la pizza nella Grande Mela era “un affare americano”, nel capoluogo emiliano questo fenomeno doveva ancora arrivare».
Leggendo i dati aggiornati a giugno 2024 si contano 21 pizzerie, 348 dipendenti da 47 nazionalità diversi, 25 milioni di fatturato, 1.800.000 pizze sfornate in un anno e, dallo scorso marzo, anche un luogo dove fare formazione: Casa Madre. «Ci siamo voluti concentrare su questo aspetto trovando degli spazi di qualità e un luogo unico. Nella memoria dei bolognesi questo è il ristorante di Bruno Barbieri, l’ex Fourghetti, ed è stata una locanda fino a pochi mesi fa. Lo sarà ancora, in un certo senso: qui le persone che assumiamo possono ricevere formazione e ospitalità».
Per arrivare a questo step ci sono voluti ben 14 anni, però. Da subito gli Aloe partirono con un manifesto che sottolineasse la leggerezza dell’impasto, diversificando il loro prodotto grazie a informazioni che davano al cliente la percezione della sua qualità: farine di tipo 1 macinate a pietra e biologiche, 24 ore di fermentazione con solo lievito madre vivo, ingredienti stagionali e presidi Slow Food, dalla bufala di La Tenuta Bianca alla mortadella di Zivieri, dalle acciughe di Balestrieri al tonno Callipo (perché vengono prima la storia e i valori del produttore, e poi il resto) e otto fette da condividere. «Per noi far arrivare la pizza al tavolo già tagliata è un inno alla condivisione – svela Salvatore –. Al pubblico spieghiamo questo: “È un benefit funzionale, l’abbiamo spicchiata noi per te”. Il retropensiero parte da un esperimento sociale: tre su quattro scelgono la margherita, al massimo una bufala, uno qualcos’altro. Diversamente dal ristorante, l’atto di coraggio viene meno in pizzeria. Allora ci siamo fatti questa domanda: “Come possiamo far partecipare alle vendite gusti meno classici aiutando le persone a osare?”».
Bisogna poi attendere il 2013 per l’apertura del primo Berberè in una grande città: «Abbiamo conosciuto Lucio Cavazzoni, presidente ai tempi di Alce Nero, che aveva una bottega con cucina in centro a Bologna e ci chiese di portare là le nostre pizze. Da questa collaborazione, oltre all’ingresso in società dell’azienda dedicata all’agricoltura biologica, è nata la nostra seconda pizzeria». L’anno successivo Matteo ha trascorso quattro mesi al Noma di Copenaghen e là, con tutti quei servizi in batteria al dì, si è convinto che creare qualcosa di replicabile fosse possibile.
Secondo la mission per cui “persone gentili servono pizze buonissime in posti bellissimi”, Berberè ha cominciato a presidiare altre città. Da Firenze, che oggi conta tre punti vendita di cui uno nell’ex area industriale che noi conosciamo come Manifattura Tabacchi, a Milano dove oggi sono in attesa del sesto; da Torino che ha già la sua tripletta anche con una sede nella vecchia fabbrica Fiat, aperta in sinergia con Don Ciotto, il promotore della legge sulla confisca dei beni dei boss mafiosi (per ogni pizza venduta una percentuale va al gruppo Abele), alle singole insegne di Roma e Verona, più le province di Rimini e Modena. «Fino all’apertura di Verona (2018) le nostre pizze non avevano dei nomi e venivano spiegate solo attraverso l’elenco degli ingredienti ma era una barriera inutile per gli stranieri», spiega Salvatore che ha precisato come l’inserimento dei gusti in carta è servito anche per prendere le distanze da quel filone che gourmettizava la pizza con foie gras e gamberi crudi. A ridosso del Covid hanno comprato le quote su Londra e, tra il primo e il secondo lockdown, aprirono oltremanica, capitale europea dove attualmente sono presenti con due locali: gli inglesi impazziscono facendo la scarpetta con il cornicione avanzato, da intingere nelle salse extra al gusto ‘nduja e miele, hummus o aioli.
«Noi siamo una catena di pizzerie – spiega il maggiore dei fratelli –: di solito questa affermazione in Italia ha un’accezione negativa. La nostra ambizione è crescere come brand un po’ come è successo agli artigiani della moda italiana quando sono diventati internazionali. A nessuno viene in mente che se compra un maglione di Missoni questo sia cucito meglio a Milano rispetto ad altri luoghi, così come non viene da dire a Massimo Bottura che se non c’è lui a Tokyo si potrebbe mangiare meno bene. Il nostro sogno è Made in Italy e deve tendere a Missoni, allora, a Massimo Bottura, non a Pizza Hut». Non ci sono stati compromessi, insomma, e anche la capacità di attrarre investitori fa parte di questo processo: «Dal 2023 in Berberè è entrato un fondo di investimento, Hyle Capital Partners: per noi è un messaggio positivo per il settore. Facciamo subito chiarezza: non siamo un franchising. Gestiamo direttamente tutti i punti vendita così come i nostri dipendenti. Questo è il modello che vorremmo portare avanti. E pensare che siamo partiti con i nostri risparmi e quelli delle nostre zie».