La viticoltura del Levante Ligure, inserita in un ambiente eccezionale per bellezza del paesaggio, negli ultimi anni si è sempre poggiata su tre grandi vitigni a bacca bianca: albarola, bosco e il più famoso vermentino. Non tutti sanno però che, in un passato non troppo lontano, l’ampelografia di quel territorio ligure era ricca di tanti altri vitigni un tempo diffusi, e oggi praticamente scomparsi, causa dell’abbandono dei vecchi impianti, come ad esempio il brusgiapagià, il piccabòn, il rossese bianco e il ruzzese.
Questa ricchezza di biodiversità viticola, di cui fortunatamente sono rimaste tracce, è stata oggetto in passato di approfonditi studi del CNR di Grugliasco che, visti i risultati legati alle potenzialità enologiche, ha iscritto il rossese bianco (2003) e il ruzzese (2009) nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite. Per gustare, però, il primo vino prodotto con ruzzese bisogna aspettare quasi dieci anni, quando grazie alla testardaggine e alla perseveranza di Davide Zoppi e del marito Giuseppe Luciano Aieta, titolari della cantina Cà Du Ferrà, che si innamorarono del racconto di questa rara varietà durante un convegno sui vecchi vitigni liguri recuperati. La storia travagliata di questo antico vitigno a bacca bianca, una volta tipico dell’area compresa tra Bonassola, le Cinque Terre e i Colli di Luni, parte infatti da lontano e lo porta, attorno al XVI secolo, sulle tavole più importanti d’Italia tanto da raggiungere il banchetto più ambito: la mensa papale. Si narra, infatti, che la struttura e l’amabilità di questo vino bianco abbiano incantato il palato di Papa Paolo III Farnese, in carica dal 1534 al 1549, consigliato a tal proposito dal bottigliere Sante Lancerio, sommelier ante litteram, in quanto, al tempo, considerato uno dei migliori vini che l’Italia enoica potesse offrire.
Per più di quattro secoli, dalla metà del Cinquecento fino ai primi del Novecento, il ruzzese o “rosece” così come fu definito nel 1736 in un atto deliberativo nella Corte di Arcola (SP), divenne il bianco amabile per eccellenza versato nei calici più importanti dell’aristocrazia e del clero italiano fino a quando la fillossera, nei primi anni del XX sec., sterminò il 99% dei vigneti di ruzzese mettendo in ginocchio i contadini del tempo e facendo, di fatto, sparire la produzione del famoso vino. Ma nel 2007 il Prof. Mannini e la Prof.ssa Schneider, studiosi del CNR e dell’Istituto Nazionale di Protezione Sostenibile della Vite, nella ricerca dei vitigni scomparsi liguri si imbatterono, nel comune di Arcola, in una misteriosa pianta madre, con un ceppo importante da cui, una volta estratta la sequenza genetica, scoprirono lo storico ruzzese che stavano cercando decretandone l’unicità anche dal punto di vista del DNA.
La storia di questa uva è talmente affascinante che Davide e Giuseppe si sono messi subito alla ricerca di queste vecchie piante piantando, nel 2015, le prime 77 barbatelle che, in cinque anni, diventeranno 1.500 fino a ricoprire cinque terrazze a sbalzo sul mare nella zona dei piani di Cà du Ferrà a Bonassola. Da questa vigna incantata, esposta a sud, nel 2020 Cà Du Ferrà ha prodotto la prima annata del “Diciassettemaggio”, primo vino prodotto da ruzzese in purezza da decenni, una vendemmia tardiva come si faceva una volta il cui nome è un omaggio di Davide al marito Giuseppe, nato proprio il 17 Maggio.
Il vino, nato da un appassimento dei grappoli in cassette di frutta per circa 90 giorni, è goloso con i suoi ritorni fruttati di albicocca secca e dattero del Marocco, ma al tempo stesso sapidissimi e dotato di una sferzante acidità figlia di un vitigno unico al mondo così come questo straordinario vino figlio di un gesto d’amore tra uomo e Terra.