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Che sapore ha la ripartenza?

Secondo Marco Bolasco, che qui racconta la sua prima cena dopo la fine della quarantena, ha il sapore dell’oste. Perché la tavola è uno dei modi più potenti e veri per entrare in relazione con il prossimo. E con la vita.

La ripartenza ha il sapore dell’oste, più che del cibo. Non posso non raccontare, su questo numero, la cena dopo il lockdown, la prima esperienza della tavola fuori casa, proibita per più di due mesi. Un’esperienza che è stata, suo modo, una scoperta.

Il desiderio è un istinto primigenio, l’attesa snervante e le aspettative, ovviamente, alte. Non si può andare molto lontani da casa per la prima uscita, perché un po’ di timore c’è. Ma soprattutto perché si cerca conforto (rieccolo, n.d.r.) e il conforto è nelle cose di sempre, non già in quelle esotiche. L’enoteca Mostò è un piccolo e semplice locale nel quartiere Flaminio di Roma, a pochi passi dal MaXXi di Zaha Hadid, dove si beve bene, soprattutto naturale, e si mangia qualche piatto molto ben assemblato. Assemblato, sì, perché da Mostò non c’è una vera e propria licenza di cucina. È il prototipo dell’osteria contemporanea, quella in cui la bottiglia di vino ha ritrovato la sua centralità sul tavolo a scapito del consumo in mescita, quella in cui si socializza intorno al concetto di convivialità.

L’emozione dell’attesa si manifesta già nei pochi passi che separano casa dall’enoteca, ci si guarda intorno per capire cosa del quartiere ha ripreso forma: “Ehi, guarda, ha riaperto anche il negozio di tappeti! Buon segno…”. Ci si attacca a tutto. La verità è che il timore di non ritrovare la stessa osteria di sempre esiste. Ci si prende per mano e si sorride: “Che mangiamo? Beh, bisogna vedere cosa c’è…”, Si mettono le mani avanti. Spinta la porta è il sorriso di Ciro, l’oste, che accoglie e rassicura. Lo spazio è rarefatto (distanziamento…) e qualche adesivo in terra indica entrata e uscita come da normativa. Il menù è su una lavagna, così non bisogna toccarlo, non ci sono i tanto desiderati würstel artigianali, i preferiti dalle bambine ma si cerca subito di guardare oltre con clemenza: “C’è la bufala di Rivabianca, ecco, quella non possiamo mancarla”, ci si dice. Poi spunta Christian, il cuoco: “E oggi ho fatto anche il panino con il polpo!”. Lui è il più bravo a fare tanto con poco.

Le bambine si guardano intorno, sono un po’ emozionate. E noi più di loro, sarà il vino a sciogliere la tensione e a trasformare il grande giorno in una serata come le altre, per fortuna. L’enoteca, per quanto permesso, è piuttosto affollata: in tanti sono tornati in cerca di conforto proprio qui. Ma non chiedono una bottiglia specifica e nemmeno un piatto. Piuttosto è tutto un fiorire di: “Ciao Ciro!”, “Ehi, maestro”. Oppure un più timido: “C’è Ciro, vero..?”, da quelli che non lo hanno ancora visto. Perché tutti, proprio tutti, sono tornati in osteria per cercare il contatto perso con il mondo di prima. E questo contatto passa attraverso un oste istrionico e sorridente, che fa da collante e fa capire quanto la tavola sia un modo per entrare in relazione con il prossimo e con la vita.

Ciro si fa in quattro (in sala è da solo) cerca di confortare tutti con un buon consiglio per bere o un racconto fugace, per intrattenere. Tutti vogliono parlare con Ciro, anche le bambine, quasi nessuno è attento a ciò che sta mangiando o bevendo, stasera. La ripartenza ha il sapore dell’oste

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