Città del Capo

Città del Capo, il palcoscenico degli chef locali

Una nuova generazione di cuochi racconta la città sudafricana attraverso i propri piatti.

La quarta portata del menu degustazione dell’Emazulwini Restaurant di Città del Capo, dove ho vissuto per qualche tempo, è stata un’autentica rivelazione. Il piatto a base di ulimi noshatini (lingua di manzo affettata sottile) mi ha conquistato già al primo assaggio per il perfetto equilibrio tra sapori e consistenze contrastanti, dalla croccantezza delle cipolle alla morbidezza della carne, esaltata dalla delicatezza della crema di amasi (un tipo di latticello), il tutto avvolto da un brodo di pomodoro dal colore rubino intenso e dal gusto avvolgente. Grazie all’attenta alchimia culinaria, ogni piatto della chef Mmabatho Molefe è un tuffo nel passato, e riesce a farmi rivivere le emozioni della sua infanzia a KwaZulu-Natal, e la sua nostalgia per esse.

«La nostra idea è sempre stata quella di rompere gli schemi e mostrare la vera essenza della cucina africana», dice Molefe. Nella cucina aperta di Emazulwini, un arioso spazio industriale riscaldato da accenti scarlatti e dall’artigianato nguni contemporaneo, la chef rielabora i piatti della tradizione culinaria zulu, basandosi sulla sua esperienza in prestigiose cucine di Città del Capo per raccontare il cibo con cui è cresciuta. Il cremoso samp (mais nixtamalizzato, chiamato anche hominy), un alimento fondamentale nelle case sudafricane, viene proposto sotto forma di crocchette, ma il cereale è servito anche arrostito, accompagnato da una mousse di mais dolce o per accompagnare l’isinkwa sombila, pane di mais cotto al vapore.

«Questo è il futuro creativo degli ingredienti africani!», afferma Molefe. Mentre mi deliziavo con una crostata di zucca e mais con gelato al burro nocciola, non potevo fare a meno di chiedermi: “perché ci è voluto così tanto?”. Durante i miei dieci anni a Città del Capo ho raccontato in modo approfondito la dinamica della ristorazione locale, visitando regolarmente locali di alto livello. Se da un lato ingredienti come la crema di amasi facevano occasionalmente la loro comparsa in alcuni menu degustazione, dall’altro i locali di cui mi sono occupata non avevano nulla a che vedere con quello di Molefe, ma si rifacevano invece a influenze francesi, italiane e giapponesi. Quando sono venuta qui per la prima volta dopo la pandemia, sono rimasta colpita da questa sorta di ritorno alle origini, grazie a cuochi in grado di valorizzare gli ingredienti locali come mai prima d’ora.

Dopo anni di formazione nei ristoranti gourmet sudafricani gestiti da persone di pelle chiara, questa nuova generazione di chef di colore sta ora tracciando nuovi percorsi che seguono la ricerca delle proprie radici. «Molefe non fa altro che raccontare la storia della sua vita e dei suoi ricordi», afferma Ishay Govender, giornalista gastronomica e autrice di Curry: Stories & Recipes Across South Africa. Ma il cambiamento non avviene solo nelle cucine dei ristoranti, bensì anche tra i tavoli. Il profilo dei lavoratori e degli avventori dei locali di Città del Capo ha per molto tempo riflesso le disparità economiche e razziali del Paese ma, in questa mia recente visita, l’ho trovato rinnovato, arricchito da una varietà di culture e background. «I dipendenti sono sempre stati prevalentemente di discendenza capetoniana ma oggi la scena gastronomica è più dinamica e inclusiva, rispecchiando i gusti di un pubblico sempre più variegato», racconta Govender. Un pomeriggio in cui avevo voglia di un hamburger, ho fatto un salto al Seven Colours Eatery dove la succosa polpetta di manzo viene servita con chakalaka (salsa piccante di pomodori e fagioli) e crema amasi sul roosterkoek, il pane tradizionale grigliato.

«Sto cercando di dare una nuova immagine di quello che dovrebbe essere la ristorazione sudafricana», mi ha raccontato la chef Nolukhanyo Dube-Cele. «Fin qui le persone non hanno avuto davvero modo di conoscere il cibo sudafricano, e penso che ora dovrebbe avvenire in tutta Città del Capo». Da Tapi Tapi, una gelateria di Observatory, l’eccentrico sobborgo che pullula di studenti della vicina Cape Town University, Tapiwa Guzha, che ha conseguito un dottorato in biologia molecolare prima di aprire l’attività nel 2020, sta reinterpretando in chiave lattica i piatti della sua infanzia zimbabwese. Ho assaggiato gelati a base di ivhu, un’argilla commestibile dello Zimbabwe, e di matemba (pesce essiccato) e toffee, e quello al mursik masawu, ispirato al latte fermentato keniota (mursik) e al “vino” ottenuto dalla fermentazione delle bacche rosse di masawu. Gusti unici, mai provati prima. Ed è proprio questo il punto.

«In genere, dopo la colonizzazione, le tradizioni culinarie locali vengono messe in secondo piano. Per secoli, ci hanno fatto credere che la nostra cultura non avesse valore, ma si sbagliavano», dice Guzha. Anche la comunità Cape Malay ha contribuito in modo significativo alla cucina del Paese. Portati qui dagli olandesi come schiavi o esuli politici dalle colonie in Indonesia e Malesia, in molti furono messi a lavorare nelle cucine domestiche. Nel corso delle generazioni, si sono mescolati con africani, europei, indiani e arabi, creando una cultura musulmana unica in Sudafrica e una cucina ibrida autoctona di Città del Capo. L’apertura di The Happy Uncles, il primo ristorante halal di alta cucina della città, fondato da Anwar Abdullatief, ha segnato una svolta per la cucina Cape Malay che fino ad allora era in gran parte confinata nelle case e nei semplici ristorantini.

«I nostri sapori non sono mai stati rappresentati nella scena culinaria contemporanea di Città del Capo», afferma Abdullatief. Avendo maturato una solida esperienza in prestigiose aziende vinicole delle Winelands, come Delaire Graff e Clos Malverne, desiderava intraprendere un percorso culinario più personale, focalizzato sui sapori intensi della carne e privo di qualsiasi componente alcolica. Il suo sogno prende vita da Happy Uncles, dove del semplice pollo al curry Malay viene servito in un risotto piccante con pomodori arrostiti, e tutte le otto portate sono accompagnate da tè anziché da vino. A novembre Abdullatief ha aperto anche Barakat nel nuovo Time Out Market, dove serve piatti più tradizionali come bredies (spezzatino di agnello) e gamberi al curry. Sempre al mercato si trova Mlilo, che rende omaggio alla cucina africana caratterizzata dalla cottura alla brace, aperto da Vusi Ndlovu pochi mesi dopo il debutto di Boma on Bree (poi lasciato dallo chef) nell’agosto 2023, nella vibrante Bree Street. I due ristoranti sono il frutto di un progetto pilota di grande successo, un pop-up di cinque mesi del ristorante Edge presso lo storico Belmond Mount Nelson Hotel, dove Ndlovu ha sperimentato con piatti africani innovativi, come la bistecca con salsa di soia a base di vermi di mopane (una fonte proteica importante in tutto il continente africano, che lo chef trasforma in una salsa di soia ricca di umami), la panna cotta ai semi di egusi (piante di melone) cosparsa di gelatina di tè rooibos, e un pane ujeqe cotto al vapore aromatizzato con un’essenza di manzo, quest’ultimo con presunte proprietà benefiche. «C’è chi dice che il nostro pane abbia fatto miracoli, salvando anche qualche matrimonio!», racconta ridendo.

Se solo fosse stato sempre così facile. In un contesto sfidante come quello di Città del Capo, caratterizzato da instabilità politica e frequenti black out, molti ristoratori faticano ad andare avanti. Ma alcuni di loro, come quelli citati, dimostrano una straordinaria determinazione, proiettati a far progredire il settore. «Potremmo aprire domani a Londra con un successo travolgente. Ma non voglio combattere questa giusta battaglia dall’estero: preferisco farlo qui, a Città del Capo. Noi saremo coloro che hanno rotto gli steccati, cercando nuove strade e superando ogni ostacolo incontrato», dice Ndlovu.

DOVE MANGIARE

Emazulwini Restaurant

Una parete di questo ristorante di ispirazione zulu funge da hall of fame degli ingredienti sudafricani, con barattoli di curry di Durban, sorgo, mais arcobaleno e piri piri in bella mostra. instagram.com/emazulwini_restaurant

Tapi Tapi

Ogni giorno la vetrina dei gelati mostra gusti come rooibos, impiego (una pianta sacra), cenere di fynbos (tipica vegetazione autoctona che ha sviluppato meccanismi di adattamento che le consentono di sopravvivere e riprodursi dopo un incendio) e mele kei, originarie del Sudafrica. tapitapi.co.za

Seven Colours Eatery

In questo ristorante informale, che prende il nome da un tradizionale pasto familiare a base di un piatto unico multicolore, si gustano succulente costolette tshisanyama (“carne bruciata” in zulu) e una versione originale della salsa chakalaka, servita su succosi hamburger. sevencolour-seatery.co.za

The Happy Uncles

Uno dei piatti forti di questo ristorante halal è l’oumense onder die komberse (“i vecchietti sotto le coperte” in afrikaans): una rivisitazione di un classico della cucina Cape Malay, qui servito con involtini di cavolo ripieni di ossobuco in un sugo ai chiodi di garofano e noce moscata, presentato con del ghiaccio secco. thehappyuncles.com

Boma on Bree

Inizialmente aperto con la cucina di Vusi Ndlovu e la sua socia Absie Pantshwa, il vivace ristorante nella via principale della città porta avanti un concept giocoso focalizzato sull’uso del fuoco in cucina. instagram.com/bomaonbree

Vadivel

La comunità indiana del Sudafrica è arrivata per la prima volta più di 150 anni fa e nel tempo ha sviluppato un’identità culinaria semplicemente unica. Provate il curry di fagioli e il budino di suji in questo locale nella famosa Kloof Street di Città del Capo. vadivelu.co.za

DOVE DORMIRE

The Silo Hotel

L’hotel più affascinante di Città del Capo si Trova in cima allo Zeitz MOCA. L’enorme struttura di cemento di un ex silo per il grano fa da sfondo a interni dai toni vivaci e a una collezione d’arte degna di un museo. theroyalportfolio.com

Ellerman House

È difficile distogliere lo sguardo dal panorama mozzafiato di Bantry Bay che si ammira da questa elegante villa di 13 camere arroccata sulla scogliera, ma la Wine Gallery potrebbe riuscirci: disposta intorno a una scaffalatura a forma di cavatappi, la cantina vanta una collezione di 9mila bottiglie. Da non perdere la degustazione di gin sulla terrazza al tramonto. ellerman.co.za

The Dorp

Questo eccentrico rifugio, situato in cima a Signal Hill, ricorda più un borgo antico che un hotel. Le 38 camere eleganti sono raggruppate intorno a cortili e giardini, da qui il nome dorp che significa “villaggio” in afrikaans, con vista sulla Table Mountain. dorp.co.za

Maggiori informazioni

In apertura, foto di Ellerman House

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