Cucina di montagna

Sei tappe per un viaggio in alta quota alla scoperta di chef e ristoranti dalle storie e identità diverse ma che condividono il legame con la natura, il senso di comunità e un approccio etico e sostenibile

Alpinn

Esiste “una” cucina di montagna in Italia? O esistono – in un Paese con oltre il 35% di zone montane – tante espressioni singolari quante sono le vette, dalle Alpi all’Appennino calabro? Chi sono gli interpreti migliori di una gastronomia moderna ma con le radici profonde (e ben ancorate ai pendii), capace di affrancarsi dalla polenta con i funghi e dagli altri cliché? Abbiamo voluto fare un viaggio in alta quota, dal Nord al Sud, per conoscere sei storie di famiglie, cuochi e ristoratori che con la montagna hanno un legame viscerale e che, al netto della diversità (di stile, di tecniche, di prodotti, di sapori), condividono il senso di appartenenza al proprio territorio, il legame con la natura, il rispetto religioso della stagionalità, un approccio più etico e sostenibile.

Una malga sana

Il nostro racconto comincia a Cortina d’Ampezzo, la località montana veneta che forse più di ogni altra fa parte dell’immaginario collettivo italiano (e che rafforzerà ulteriormente il suo appeal grazie al palcoscenico delle Olimpiadi invernali del 2026). Qui, lungo la strada che sale al Passo delle Tre Croci, si trova una delle cucine più originali, pure e identitarie dell’arco alpino: quella del SanBrite, che Riccardo Gaspari (ai fornelli) e Ludovica Rubbini (in sala e ai vini), autodefiniscono “agricucina”. Il progetto di questa “malga sana”, inaugurata nel 2017, nasce da lontano, come ulteriore tassello ed evoluzione dell’esperienza del Brite de Larieto, agriturismo immerso in un lariceto a quota 1.664, sotto le cime del Monte Cristallo, che i genitori di Riccardo hanno avviato nel 2004, iniziando ad allevare vacche, vitelli, maiali e galline, e che ancora oggi è la sosta preferita di molti sciatori o camminatori. «Il nostro lavoro è nato dalla stalla. Io a 17 anni facevo il pastore – racconta Riccardo, che è stato anche sciatore professionista – con gli animali al pascolo, mungevo a mano, aiutavo mio papà in malga. Ed è da mia mamma che ho avuto la prima infarinatura di cucina, con le tipiche ricette ampezzane, come i casunziei. Nel 2011, più a valle, avevamo già costruito il caseificio, il Piccolo Brite, perché volevamo la miglior materia prima e perché solo conferendo il latte purtroppo non si guadagnava. Il SanBrite è nato lì di fianco, in quella che era la rimessa delle macchine agricole, proprio per dare voce al lavoro dei miei genitori e per valorizzare i loro prodotti».

Un percorso all’inverso rispetto a quello “tradizionale”, secondo cui uno chef prima apre un ristorante e poi fa l’orto o avvia un allevamento. «Dopo alcuni stage, e soprattutto dopo l’importante esperienza di Ricky all’Osteria Francescana di Massimo Bottura, avevamo voglia di fare qualcosa di diverso dal Brite de Larieto, dove bisogna assecondare di più il pubblico e non si può fare una cucina troppo gourmet», conferma Ludovica, che è di Bologna ma a Cortina ha studiato dalle Orsoline e veniva in vacanza a sciare, prima di fidanzarsi con Riccardo, decidere di trasferirsi dopo soli tre mesi e cominciare subito a lavorare nell’azienda di famiglia.

Anche sulle Dolomiti Ampezzane vale la locuzione nemo propheta in patria: non è stato facile, all’inizio, far capire l’evoluzione di una cucina nata in una malga a un pubblico a volte più attento alla forma che alla sostanza. «Noi avevamo in mente un progetto molto chiaro ma eravamo anche preoccupati perché molti dei clienti di Cortina sono habitué e non era facile far capire che uno spaghetto al pino mugo (sintesi gustosissima di sapori di montagna, ormai un signature) può costare quanto uno spaghetto all’astice servito in uno dei ristoranti nel centro del paese. Per fortuna la gente si è affidata a noi, con curiosità, e ora il pubblico riconosce la qualità dei prodotti. C’è chi inizia ad accorgersi della differenza in un caprino se il latte è di pascolo o di stalla». Al Piccolo Brite si possono acquistare tanti formaggi prodotti grazie alla sapienza e passione del giovane casaro Matteo Bonaiti Pedroni, che lavora in simbiosi con Riccardo e la brigata di cucina. Dalle caciotte alla mozzarella (una delle pochissime prodotte sulle Dolomiti), dallo yogurt al burro che è, senza mezzi termini, il più buono del pianeta (quello servito al ristorante viene montato con il 2% di sale). Il segreto? Un latte qualitativamente straordinario. E poi ci sono i salumi affinati in casa, tra cui l’ottimo speck di spalla, che stagiona più di un anno.

La definizione più calzante per la cucina del SanBrite è “rigenerativa”, concetto che va oltre il sostenibile, perché non solo propone un menu senza sprechi ma rimette in circolo gli scarti: gli avanzi dei piatti e della produzione dei formaggi (il siero andrebbe smaltito proprio come un olio esausto) diventano alimento per i maiali. E con il siero del latte vengono prodotti anche una melassa e uno zucchero – secondo una vecchia tradizione delle malghe – che sostituisce quello convenzionale, ormai bandito da anni dalla cucina (e dai dolci) del ristorante.

«La nostra è una cucina molto personale – conferma lo chef – che si può fare solo in montagna. Moderna nella tecnica ma dai sapori antichi. Il nostro lavoro parte molto prima del piatto: il modo in cui alleviamo e nutriamo gli animali, le zone dove pascolano, tutto è funzionale al sapore che vogliamo ottenere». Il repertorio di Gaspari sta andando sempre più, spontaneamente, verso il mondo vegetale, e può attingere dai tre orti di proprietà, ognuno dei quali organizzato ogni anno in base alle esigenze del menu. Herbarium è un piatto in qualche modo “didattico” – un campionario di bacche, fiori e foglie, dal crespino al levistico, al ginepro selvatico – che prepara gli ospiti al percorso degustazione. Un unico ingrediente, come il sedano rapa o il cavolo, viene declinato in tante espressioni (e piatti) diversi, sperimentando su cotture, marinature, fermentazioni, persino sul dry aged, come si farebbe sulla carne: «Sono preoccupato – scherza lo chef – forse sto diventando vegetariano. Noi abbiamo investito molto sugli allevamenti ma questa è una scelta sostenibile, anche economicamente. Vuol dire anche recuperare le nostre vere tradizioni, che parlano di tuberi e verdure e non di cervo, ad esempio, una carne che si mangia solo dagli anni Ottanta». Così è la ristorazione dolomitica del SanBrite: senza cliché o finte tradizioni, profondamente legata alla natura e al luogo, tanto da non poter essere replicata altrove.

Il senso di Norbert per la montagna

Di Norbert Niederkofler si è detto molto, ma sicuramente non tutto. Chef di montagna e tre stelle Michelin per primo in Alto Adige (ma non il primo altoatesino a prenderle perché ci fu anche Heinz Winkler in Baviera prima di lui), Norbert è di fatto il primo cuoco italiano a raggiungere il massimo riconoscimento della Rossa grazie alla promozione di una rete di soli produttori di prossimità. Il suo Cook the Mountain non è solo la riflessione sul concetto di una nuova cucina alpina e dolomitica quanto la costruzione di un sistema di produzione quasi autarchico, mai visto prima in Sud Tirolo. La Val Badia è sì, da diversi anni, una delle mete turistiche più esclusive e ambite al mondo, ma la rinascita gastronomica cominciata vent’anni fa non era basata, prima del St. Hubertus (il ristorante all’interno del luxury hotel Rosa Alpina a San Cassiano), su una reale microeconomia di scala. I ristoranti stellati della zona proponevano infatti una cucina gourmet a tutto campo, che comprendeva argomenti territoriali ma che spaziava dai crudi di mare ai prodotti francesi, promuovendo il meglio del mercato internazionale, per un turismo internazionale. «Anche da noi, alla fine degli anni Novanta – dice lo chef – l’80% delle comande prevedeva il foie gras e consumavamo 150 chili di pesce di mare alla settimana». L’abilità di Niederkofler sta nell’aver invece messo allo stesso tavolo contadini, artigiani e allevatori restituendo loro l’orgoglio di un mestiere. Un vero aiuto al territorio: il lavoro concreto per il mantenimento della sua cultura. «Riuscii a capire che le persone non volevano solo vedere la montagna ma, nel viverla, volevano anche mangiarla».

Per fare questo l’economia deve poter andare oltre le frontiere del ristorante stellato con pochi coperti e la creazione dell’AlpiNN, ristorante-rifugio a Plan de Corones, concretizza su più ampia scala la possibilità di comprare grandi quantità di materie prime (addirittura intere produzioni) per sostenere le filiere. E oggi è possibile immergersi nel sofisticato menu stellato del St. Hubertus all’Hotel Rosa Alpina di San Cassiano oppure salire con gli impianti da Brunico o dal Furcia e fermarsi per una pausa più veloce e accessibile a Kronplatz, anche con gli sci ai piedi. I fornitori: frutta, erbe, carni, prodotti caseari sono gli stessi e di altissima qualità. I sapori, i profumi, il senso di quello che si mangia si fondono con il contesto, i materiali usati per l’architettura e il panorama, e la montagna diviene risorsa e passione vera.

Un enfant prodige in Valle d’Aosta

Questa storia valdostana comincia il giorno in cui Paolo Griffa, giovane cuoco (classe 1991) alla ricerca di nuove frontiere, viene contattato dai nuovi proprietari del Grand Hotel Royal di Courmayeur, un gruppo di appassionati della propria montagna che non tollerava più vedere quella splendida struttura in abbandono. La ristrutturazione era già avanti con i lavori e uno dei soci aveva saputo che Griffa avrebbe passato il Monte Bianco per il suo rientro in Piemonte. I tentativi precedenti di fargli fare un sopralluogo erano stati vani ma, grazie ad un tallonamento quasi da stalker, Griffa venne convinto alla sosta. Alla prima visita negli spazi dedicati alle cucine lo chef rimane perplesso dalle pareti divisorie e non manca di manifestarlo. In un’ora, durante il resto della visita, le pareti vengono immediatamente abbattute e, a sorpresa, lo chef scopre i nuovi spazi al termine del tour. Pronti per lui. È fatta, il giovane di Carmagnola ha trovato qui la sua nuova casa: se queste sono le premesse potrà fare ciò che vuole. In lui c’è il mix di rigore e impegno piemontese che sono alle base di buona parte dei successi enogastronomici subalpini degli ultimi anni. Ma Paolo non è solo un perfezionista e un lavoratore indefesso, lui ha l‘ambizione di ridisegnare alcune delle basi della cucina innovativa accompagnandosi ad alcune delle più grandi tecniche classiche dell’alta gastronomia. Non a caso è uno dei pochi che ha potuto passare un bel po’ di tempo nelle cucine del Combal.Zero di Davide Scabin senza esserne naturalmente espulso. Neoclassico, afferma qualcuno, ma più probabilmente talentuoso interprete di una cucina nuova che, soprattutto in questo momento storico, non può che guardare anche al passato e con una «spontanea e dolce predisposizione all’estetica» come scrivevano Antonella Fassio e Bob Noto nella prefazione al suo primo libro.

La stagionalità, che in un luogo come la montagna valdostana è qualcosa da cui non si può rifuggere, si esprime nelle tecniche e rielaborazioni utilizzate nella cucina del Petit Royal, dagli infusi alle fermentazioni, dalla kombucha al foraging. Era da tempo che non si vedeva un giovane capace di lavorare in maniera laica su nuovi concetti di cucina – originalissimi – senza sentire il bisogno di stupire solo con effetti speciali ma invece riuscendo a muoversi agilmente anche dentro il repertorio della grande grammatica gastronomica. In questo probabilmente risiede il talento di Griffa, la cui storia alpina è breve ma già ricca e intrecciata con l’agricoltura e i prodotti autoctoni valdostani. Ingredienti fondamentali, come la grande determinazione di questo chef.

Radici di comunità

«Sono felice di aver creato un posto dove si mangia bene e dove ogni giorno cerco di far star bene tutti gli ospiti. Ma quello che vogliamo davvero è trasmettere l’idea di un approccio diverso al cibo, all’economia, alla montagna. A impatto zero». Juri Chiotti ha le idee molto chiare su cosa significhi fare ristorazione, e cosa significhi vivere in montagna.

Classe 1985, aveva solo venticinque anni quando ha ottenuto la stella Michelin alle Antiche Contrade di Cuneo, insieme a un certo Diego Rossi (che avrebbe poi inaugurato Trippa a Milano). Ma gli ci è voluto poco per capire che quel mondo lì gli andava stretto. Il “ritorno a casa”, in quella Valle Varaita dove è nato e cresciuto, è cominciato prendendo in gestione il rifugio Meira Garneri a Sampeyre a 1.850 metri di quota. Poi è sceso più giù, a quota 800, località Frassino. Qui ha pulito un pezzo di bosco, ristrutturato un casale e aperto Reis – cibo libero di montagna. E già la parola dice tutto: reis, radici in occitano. I piatti del Reis raccontano una cucina robusta e generosa. Il menu cambia quotidianamente in base alla stagione ma non mancano mai il Toumin dal mel, formaggio locale, con patate arrosto e spuma di aioli; i Ravioles della Val Varaita abbondantemente conditi con burro e pepe nero; il risotto al pesto di aglio orsino con aceto di mele e mustardela, salume del territorio simile al sanguinaccio. E l’indimenticabile panna cotta al fieno di montagna con succo di bacche di sambuco. Più che nel chilometro, dice Chiotti, lui crede al centimetro zero.

Il suo obbiettivo è l’autosufficienza totale. Non c’è ancora riuscito, ma ci va molto vicino. Alleva una trentina di pecore (razza Sambucana, Presidio Slow Food) e capre, di cui usa il latte e la carne, «applicando la stessa filosofia del bue grasso: castrare gli animali giovani e farli vivere qualche anno in più. Il sapore migliora e soprattutto migliora la loro vita». E poi anatre, galline, polli, conigli. Quasi tutti i vegetali e la frutta sono suoi o vengono da aziende vicine che come lui tengono alta la barra dell’etica e della sostenibilità. Con due di loro, l’azienda agricola Cresco e la Fattoria dei Paiei di Busca, Chiotti ha avviato il progetto Brigate Contadine: sottoli, sughi, conserve di pomodoro e altri prodotti del territorio in barattolo. E tre anni fa insieme a un gruppo di soci ha aperto una “gelateria di montagna” nel paesino di Melle: da Fioca si trovano gusti a base di prodotti della Val Varaita come fieno, fiori di sambuco, ricotta. «Per fortuna non sono solo – dice Juri – ma uno dei tanti attori della rinascita di questo territorio. Spero che il fatto di vedere che io ce la stessi facendo abbia dato forza e ispirazione ad altre attività».

Il suo viaggio tra le montagne non è finito: il prossimo anno trasferirà ristorante e azienda agricola a Chiot Martin, 1.000 metri, all’interno di un fienile dentro una borgata ormai abbandonata da cui proviene la sua famiglia (i Chiotti appunto).

La montagna di Juri Chiotti è una montagna di comunità. A lui i lustrini della fama, i punteggi delle guide e la popolarità social interessano poco. Gli interessa invece dimostrare che in montagna si può vivere, creare, fare sistema condividendo i successi e le difficoltà. «Non è la Valle Varaita che è speciale. Creare realtà del genere è possibile dovunque. Basta volerlo».

Incontri e contaminazioni

L’Abruzzo è una delle regioni del Centro Italia a maggiore tasso di biodiversità: possiede la vetta più alta dell’Appennino e una montagna vera, dolci colline soleggiate e una costa adriatica piena di tradizioni. L’Aquilano rappresenta l’unica vera montagna appenninica oltre alla Sila, fra parchi nazionali e regionali, rilievi aspri, lupi e cinghiali, transumanze storiche e pastorizia contemporanea. Ma se l’Abruzzo di montagna è già un discorso a sé rispetto a quello del teramano o del chietino, bisogna scrivere un foglio a parte per la Marsica, terra “dai monti di erbe magiche e di fiori” ai confini con il Lazio, cioè il territorio che comprende e circonda la piana-conca bonificata (una volta era un lago) del Fucino.

Avezzano della Marsica è di fatto la capitale ed è una città complessa, in cui le tradizioni hanno un sapore diverso a causa del terremoto devastante che la azzerò nel 1915. In questo contesto, che davvero ha qualcosa di magico e sospeso, Franco Franciosi costruisce la sua impresa: Mammaròssa, ovvero la nonna in dialetto (mamma grossa un po’ come grand-mêre in francese), e infatti non bisogna sbagliare l’accento (che è quello grave, la “o” si pronuncia aperta), perché il rosso non c’entra nulla. Si legge invece negli occhi di questo cuoco inquieto, autodidatta e studioso, che ama il proprio territorio e ci si scontra tutti i giorni, e che ha dedicato un ristorante creativo alle nonne. Lui fermo non sta mai: coltiva, raccoglie, dialoga e sperimenta, sempre alla ricerca di porte da aprire. Lui non è profeta in patria – qui è più difficile che altrove – ma la sua impresa è figlia di questa terra. Franco possiede un bagaglio personale di storie, gesti e sapori ma, come accade a quelli bravi, conosce la tradizione per poi dimenticarsela. Le tradizioni, poi, si possono riscrivere sulla base delle migrazioni, ed è così che nasce il piatto della pecora nella tajine, scambio fra la tradizione pastorale marsicana e l’incontro con le comunità di braccianti marocchine. In qualche modo il concetto di contaminazione è quello che da queste montagne si è trasferito nella cucina di Franciosi e a lui è molto caro: che si tratti di un piatto o di un pensiero, la ricchezza nasce nell’incontro. Anche per questo è difficile catalogare la sua impresa: un po’ ristorante ma nato con l’amore per le osterie. Amore che ha generato Sfuso (l’outlet informale con annesso delivery creato durante la pandemia), che riprende il concetto del vino, sapendo essere buono anche se non rispetta l’etichetta.

La cucina del Sud che non ti aspetti

Quelle della Sila sono le cime più sconosciute d’Italia. Quando parliamo di montagna il nostro immaginario non scende mai giù, fino alla Calabria, dove si estende uno dei più bei Parchi Nazionali d’Italia: 150mila ettari di laghi e boschi in cui, secondo uno studio del 2020, si respira l’aria più pulita d’Europa. Qui uno chef ha iniziato a far conoscere il patrimonio gastronomico della montagna calabrese, riprendendone le tradizioni e traducendole in un linguaggio più contemporaneo.

Il Biafora Resort&Spa è stato costruito alla fine degli anni Ottanta dalla famiglia Biafora a San Giovanni in Fiore, 1.250 metri sul livello del mare. Antonio Biafora è cresciuto qui, «dormendo sui sacchi di farina e sbucciando patate». Il suo sogno era fare il direttore d’albergo, ma il percorso di studi l’ha dirottato verso la cucina e dopo diversi stage (tra cui Frank Rizzuti in Basilicata) ha aperto il ristorante gastronomico Hyle, nella struttura dell’hotel, a gennaio 2020. «La cucina è dentro la sala e in pratica abbiamo quattro chef’s table – racconta ridendo –. Non l’ho fatto per una motivazione puramente stilistica, dietro c’è un concetto profondamente calabrese. In Calabria a coloro a cui vogliamo bene non apriamo il salotto: li facciamo mangiare direttamente in cucina. Senza barriere».

Ai suoi ospiti Biafora propone una cucina che definisce puramente di montagna, nei gesti, nei prodotti e nei sapori: «La nostra non è la cucina del Sud che tutti si immaginano. Qui il cibo base era quello dei mezzadri poveri – prosegue – che vivevano nove mesi d’inverno all’anno. Gli ingredienti base sono vegetali ed erbe spontanee, patate, frattaglie, farina di castagne e di segale, conserve… si cercava di conservare qualsiasi cosa. Persino i fiori di finocchio venivano messi sottaceto». Il piatto per lui più iconico del suo modo di “cucinare la Sila” è la reinterpretazione della Licuordia, una zuppa poverissima e molto antica: a San Giovanni si preparava solo nei giorni di festa con acqua, lisca di baccalà, conserva di pomodoro e pane nero raffermo. Lui la serve in crema con pelle di baccalà soffiata, verza e stroncatura (pasta tipica calabrese).

L’ispirazione quotidiana dello chef viene dai boschi intorno al Resort. Una delle sue ultime scoperte sono le pigne raccolte ancora verdi: «Ci faccio un decotto e ne ricavo uno sciroppo denso e resinoso, con cui preparo un gelato, servito con frolla di farina di castagne e segale, namelaka di funghi porcini con tartufo bianco e riduzione di aceto di mele». È riuscito a intessere una relazione molto salda con tutti i produttori del territorio che gli procurano formaggi, trote, selvaggina, funghi, tartufo e i vegetali che non riesce a coltivare lui stesso nel suo orto completamente biologico.

Ma perché finora della cucina della Sila si è sempre parlato così poco? «Il problema grosso è che in Calabria siamo pochi, l’equivalente di due quartieri di Roma in tutta la regione, figurati in montagna. E mentalmente c’è ancora molta chiusura. Solo nell’ultimo decennio – spiega Biafora – alcuni giovani hanno iniziato ad andare fuori regione, imparare e poi tornare, per investire sulla nostra terra. Non abbiamo un’identità territoriale molto definita e quindi anche per i piccoli produttori diventa difficile lavorare. Dovremmo essere tutti uniti e creare una filiera forte: agricoltori, allevatori, piccoli artigiani e ovviamente chef». Un augurio valido in questa montagna, come in tutte le montagne.

Orgoglio e identità di montagna

Nel pieno di una crisi che ha visto il mercato del libro di cucina ridursi in dieci anni di più del 60% il libro “Cook the Mountain – The nature around you” di Norbert Niederkofler è un’opera che mancava. Già, perché il mercato ha fatto piazza pulita di titoli facili e futili, di libri piccoli e leggeri, ma divora gli approfondimenti, la verticalizzazione dei contenuti, gli oggetti di pregio. Il libro che torna ad essere il buon libro, insomma. E questo è un libro buono e anche bello, nella sua confezione cartonata double face (da una parte il grande tomo che racconta il progetto e la storia dello chef, dall’altra un più agile quaderno-ricettario in cui è addirittura possibile prendere appunti) che può trasformarsi in un leggìo. L’opera è così grande che quando il lettore la apre quasi ci cade dentro tanto viene avvolto dalle storie e dalle immagini di tutti gli artigiani, macellai-veterinari, agricoltori, che sono protagonisti di Cook the Mountain. E lo sono tanto quanto lo chef Norbert. È quello che lui vuole, esserne l’ambasciatore quasi facendo un passo di lato per non disturbare. Le ricette ci sono ma servono allo scopo: restituire l’orgoglio al lavoro e all’identità di una comunità.
COOK THE MOUNTAIN Südwest Verlag, Munich. 396pp. (+ quaderno da 160pp.), 98€

GLI INDIRIZZI

SanBrite
Località Alverà, Cortina d’Ampezzo (BL)
sanbrite.it

St. Hubertus dell’hotel Rosa Alpina
Strada Micurà de Rü, San Cassiano (BZ)
st-hubertus.it

Petit Royal del Grand Hotel Royal & Golf
Via Roma 87, Courmayeur (AO)
hotelroyalegolf.com

Reis – Cibo Libero di Montagna
Borgata Meira Brancia 1, Frassino (CN)

Mammaròssa
Via Garibaldi 388, Avezzano (AQ)
mammarossa.it

Hyle del Biafora Resort&Spa
Località Torre Garga, San Giovanni in Fiore (CS)
hyleristorante.it

LE RICETTE

foto AlpiNN – F. Fioramonti