Dietro le quinte del delivery

Servizi impersonali, imprecisi e scarsa tutela dei rider hanno segnato le ultime pagine di cronaca dedicate alle piattaforme più note, mentre sembrano aver riscontrato maggior gradimento servizi sartoriali di alto profilo nati più di recente. Nel dubbio, alcuni ristoratori hanno deciso di farsi carico personalmente delle consegne a domicilio.

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Food delivery, sì o no? Se n’è parlato tanto (per un panorama sull’offerta, con esempi da tutta Italia, si veda la nostra cover story) e al di là dell’adagio ormai rilanciato dai più – “eravamo indietro rispetto all’estero, quest’esperienza ci può insegnare molto” – l’osservazione degli ultimi mesi ci consente di trarre alcune conclusioni: questa modalità è entrata solo in parte nelle abitudini del pubblico italiano e, osservando quanto viene offerto sulle piattaforme internazionali che operano in Italia, viene da pensare a formule quasi esclusivamente pop, veloci, semplici, rivolte a un pubblico giovane, o comunque informale. Non la soluzione migliore per ristoranti con un’identità più marcata, più raffinata, più personale.

È indubbio che il delivery attraverso app porti con sé alcune criticità. Intanto, per il loro posizionamento in questo mercato, i soggetti chiedono commissioni importanti sulle transazioni, in media tra il 30 e il 35%. Ma soprattutto affidano il lavoro a una flotta di rider il cui unico compito, e non per loro colpa, è effettuare quante più consegne nel minor tempo possibile. Un approccio forzatamente anonimo, privo di qualsiasi forma di contatto umano, che si ripropone in maniera netta anche nel rapporto tra i rider e i loro datori di lavoro.

Lo racconta Luca, milanese, freelance nel mondo della comunicazione, tornato a fare il rider dopo qualche anno: «Lo avevo già fatto nel 2016. Il Covid però ha bloccato tutti i miei lavori e sono tornato in bici. Ho trovato l’esperienza ancora più estraniante: non hai un rapporto con nessuno di umano, firmi un contratto online, ti arriva un kit a casa, dialoghi sempre con una app, senza sapere chi ci sia dall’altra parte».

Forse anche per queste caratteristiche, le più note tra le piattaforme di food delivery non hanno registrato un boom di nuovi contatti nelle settimane cruciali del lockdown: «Abbiamo osservato un andamento oscillante», racconta Matteo Sarzana, General Manager di Deliveroo Italia, parlando dell’effetto della crisi Covid-19 sul volume d’affari della piattaforma. «Il gelato è stato un elemento di novità di questi mesi – spiega – in una nuova, diversa, esperienza di consumo. Da simbolo della golosità fuori casa, il gelato, anche quello artigianale, ha conosciuto una “nuova vita” a casa, grazie al food delivery». Oltre al gelato, in queste settimane Deliveroo ha esteso il proprio servizio alle consegne dai supermercati di prodotti alimentari. Un’aggiunta che ha arricchito le possibilità offerte al pubblico, ma che non ha portato a una crescita importante dei clienti.

Sono diversi, e decisamente più positivi, i dati che hanno registrato altre piattaforme, nate in Italia negli ultimi anni: «Sono state settimane davvero intense», racconta Giovanni Cavallo, Presidente e co-fondatore di MyMenu, «grazie alla tecnologia, e all’impegno della nostra squadra, siamo riusciti ad affrontare una crescita del 190% rispetto al periodo pre-Covid senza dover aumentare le risorse interne. L’anno scorso avevamo registrato transazioni per circa 5 milioni, quest’anno stimiamo di arrivare a 15 milioni». Di ordini addirittura quintuplicati parla Marco Arese, Strategy & Business Development Manager di CosaPorto. «Questa situazione ha portato un forte aumento della domanda, ma anche dell’offerta. Ci hanno cercato ristoratori e negozi che non avevano mai pensato al delivery».

Sono due realtà diverse tra loro, MyMenu e CosaPorto, ma con una caratteristica in comune: un posizionamento sul mercato più alto rispetto ai concorrenti internazionali. «Fin dall’inizio – spiega Cavallo – MyMenu ha avuto l’ambizione di lavorare con ristoranti di alto livello: non a caso circa il 50% delle insegne che lavorano con noi lo fanno in esclusiva. Ristoranti che ci scelgono perché non vorrebbero essere altrove. Questo influisce sul target a cui ci rivolgiamo, e infatti lo scontrino medio pagato dai nostri clienti è due volte e mezzo più alto rispetto ai trend di settore». Questo si riflette poi sul servizio che MyMenu offre ai ristoratori: «In queste settimane abbiamo accolto diverse novità di fascia alta, a cui abbiamo potuto offrire un servizio su misura. Parliamo, troviamo insieme le soluzioni migliori. E siamo sicuri che i ristoranti che sono arrivati in questa occasione resteranno: hanno compreso che il delivery è un’opportunità importante, se declinata secondo le proprie esigenze e il proprio stile».

CosaPorto – il nome è auto-esplicativo – nasce dall’esigenza di venire incontro a chi, invitato a un’occasione speciale, non sa cosa portare in regalo. In tre anni di vita, il servizio si è poi ampliato in modo significativo, mantenendo però questa ispirazione. Rispetto agli altri concorrenti, dunque, meno consegne di menù pronti o da rigenerare, e molta più offerta di alimentari confezionati di alta gamma. «Per questo – precisa Arese – abbiamo fatto nostra l’espressione “high quality delivery”. Un posizionamento che in queste settimane ha portato realtà prestigiose della pasticceria, della gelateria e della ristorazione a contattarci. A loro abbiamo offerto un servizio personalizzato: i nostri fattorini consegnano sempre in auto, con imballaggi molto curati.

Sono diversi, infatti, i ristoratori che hanno avuto qualche problema nel loro rapporto con le piattaforme di delivery. Uno di loro è Marco Pucciotti, imprenditore romano con una decina di locali all’attivo, tra cui Santopalato, Sbanco, Eufrosino, Umami, Epiro, A Rota: «Ho esitato sul delivery, inizialmente: i miei locali sono luoghi di aggregazione, dove cibo e servizio sono una cosa sola. Con le pizzerie Sbanco e A Rota ho avuto subito un gran numero di ordini e lì sono iniziati i problemi. Abbiamo fatto sia consegne autogestite, sia con diverse piattaforme di delivery: dal 90% delle consegne fatte dai nostri corrieri avevamo riscontri positivi, contro il 50% nel secondo caso. Prodotti che arrivavano freddi, in pessime condizioni per il trasporto in bici o in scooter. Per questo ho deciso di interrompere il rapporto con le piattaforme e di tenerle solo come opzione di emergenza».

Vasiliki Pierrakea, titolare di Vasiliki Kouzina, ristorante greco di meritato successo a Milano, racconta invece che sono stati gli stessi suoi clienti a scegliere il servizio di consegna autogestito: «Sono presente anche su Glovo, ma ho avuto pochissimi ordini da lì. Una delle cose più belle di questa esperienza è stato proprio sentire che i clienti volevano parlare con me, cercavano un dialogo. Voglio proseguire anche nei prossimi mesi, penso che questa proposta possa affiancarsi al lavoro che facciamo con il ristorante».

Le fa eco Eugenio Boer, anche lui milanese, che con il suo Bu:r ha messo in piedi un servizio di delivery dall’identità diversa da quella del suo ristorante: «Io e Carlotta Perilli, maître e mia compagna, abbiamo pensato a una proposta da gastronomia classica, con qualche piccolo guizzo “nostro”. È stata una splendida scoperta, anche per Carlotta, che ha effettuato tutte le consegne personalmente: un valore aggiunto importante, per noi e per i clienti».

Esperienze positive, che aiutano a comprendere come l’elemento umano sia cruciale in una declinazione del delivery adatta ai ristoratori di qualità. Ma la questione, come provano gli ultimi fatti di cronaca, non è solo limitata alla personalizzazione, al calore e alla precisione del servizio. Nelle parole di Luca, il rider a cui abbiamo dato voce in apertura: «L’esperienza con una grande piattaforma internazionale mi sta rendendo sempre più critico rispetto a questo sistema. È come essere finiti in un videogame: devi interagire sempre con la app, se ti perdi una notifica, o peggio ancora se ti fai male e devi restare fermo qualche giorno, scendi in classifica e rischi di non poter più prenotare le fasce orarie in cui lavorerai, ti restano solo le sere nei weekend».

Il lavoro come premio da conquistare su un’app è una prospettiva di carattere distopico, ma ancora più cupo è il panorama delineato da un’indagine condotta dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza, che ha portato a fine maggio il Tribunale di Milano a disporre il commissariamento della società Uber Italy per caporalato. O meglio, per “interposizione fittizia di manodopera”: fra Uber Eats e i rider si è infatti posta, secondo quanto emerso dalle indagini, la società Flash Road City. Sul decreto di commissariamento si legge che Uber, attraverso questa intermediazione, avrebbe sfruttato migranti provenienti da contesti di guerra, richiedenti asilo e persone in stato di bisogno ospitate in centri di accoglienza temporanei, pagandoli solo 3 Euro a consegna, indipendentemente dal giorno e dall’orario di lavoro. La multinazionale ha dichiarato che «Uber Eats ha messo la propria piattaforma a disposizione di utenti, ristoranti e corrieri negli ultimi 4 anni in Italia nel pieno rispetto di tutte le normative locali. Condanniamo ogni forma di caporalato attraverso i nostri servizi in Italia».

La questione è diffusa e in continuo aggiornamento: le piattaforme di delivery si considerano semplici intermediari tra esercenti e corrieri, uno dei motivi per cui molti dei “ciclofattorini” hanno inizialmente lavorato senza i “dispositivi di protezione individuali” (mascherina, guanti, gel disinfettante) che le aziende dovrebbero fornire ai propri dipendenti (per forza, non sono inquadrati come tali). A Milano ci ha pensato il Comune a distribuirli, mentre per l’acquisto autonomo la Regione Lazio ha predisposto l’erogazione di un “bonus sicurezza”. Dal 1 febbraio le piattaforme sono tenute ad assicurare i rider (una normativa del 2019 già prevedeva l’obbligo di copertura antinfortunistica, iscrizione alla gestione separata Inps e minimo salariale) e in alcuni casi (lo fa Deliveroo) le piattaforme hanno adottato fondi di supporto per i soggetti colpiti da Covid. Nel frattempo, anche i Carabinieri di Milano hanno avviato un’indagine sui rischi sanitari legati alle piattaforme di delivery. La storia non finisce qui.

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