Alla fine del pranzo, sulla sontuosa tavola nella sala degli ospiti di Donnafugata, veniva sempre servita la gelatina al rum. Era il dolce preferito di Don Fabrizio e della Principessa che non vi rinunciava mai. A forma di torrione “dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante e il cucchiaio vi si affondava con stupefacente agio”. Sedici anni fa, leggendo le pagine del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Corrado Bellia è stato colpito da un particolare. Oltre alla golosa maestria nel descrivere la prelibatezza, la sua attenzione si è rivolta all’ingrediente principale della gelatina di Don Fabrizio, il rum, e all’uso apparentemente disinvolto che ne faceva la nobiltà locale siciliana nell’Ottocento.
Un distillato prezioso per l’Europa del tempo, inserito con naturalezza nei menù e persino nei dolci, per le occasioni importanti. Bellia, imprenditore siciliano da tanti anni residente ad Avola, di cui promuove la preziosa mandorla come direttore del Consorzio, ha deciso che doveva saperne di più. Intuiva che quel rum fosse più di un vezzo letterario. Con la tenacia che lo caratterizza, ha iniziato così la sua ricerca tra le pagine di trattati semisconosciuti di agraria e storia locale, per capire le origini della cannamela (canna da zucchero, in dialetto) coltivata per secoli in Sicilia, dagli arabi in poi, per produrre il prezioso oro bianco: lo zucchero. Ha così scoperto che la coltivazione fu dismessa in tutta la regione nel XVII secolo, a causa dei cambiamenti climatici e della scarsità di acqua, e mantenuta solo ad Avola, nelle proprietà dei Marchesi Pignatelli d’Aragona Cortes, come è attestato nel 1878 dal botanico Giuseppe Bianca nella Monografia agraria del territorio di Avola.
Proprio ad Avola, il succo della canna era impiegato nella produzione non solo di zucchero ma anche di ottimo rum, ben conosciuto dalle famiglie nobiliari siciliane. Una consuetudine interrotta a fine Ottocento. Due secoli dopo, Ron Corrao (come è ormai conosciuto ad Avola), con un pizzico di visionaria follia, ha voluto riportare in vita questa coltivazione per tornare a produrre autentico rum siciliano proprio lì dove era nato. L’occasione concreta è finalmente arrivata tre anni fa quando, seguendo le indicazioni del trattato di Bianca, ha avviato le prime piantagioni di canna da zucchero in diversi appezzamenti intorno al paese, tra le distese di alberi di mandorle. Pur non essendo la cultivar originale di due secoli fa la pianta si è adattata bene, neanche fossimo ai Caraibi. In questa parte della Sicilia, infatti, le estati calde si alternano a inverni miti, circostanza che favorisce un livello zuccherino molto alto, perfetto per ricavarne un succo concentrato e dal giusto tono erbaceo. L’obiettivo è sempre stato quello di fare un rum da puro succo di canna da zucchero, e non da melassa. Un rum agricolo dunque, anche se la denominazione non si può ufficialmente usare in etichetta in quanto protetta e riferita solo ai rum dei territori francesi e della Regione Autonoma di Madeira.
Per il nome Bellia ha scelto un richiamo al territorio, Avola Rum, e sull’etichetta ha voluto la pianta esagonale della città. «Ci ho messo 16 anni ad arrivare qui – racconta emozionato – a questo prodotto siciliano e italiano al 100%, dalla pianta al distillato. Una produzione ancora piccola ma di eccellenza che esprime il meglio di un territorio dove nascono, tra gli altri, la mandorla e il Nero d’Avola. Voglio che questo mio progetto cresca, ci sono altri imprenditori tra Noto e Avola interessati a coltivare canna da zucchero. È un bene per la nostra terra: sta nascendo un movimento, molti vedono un’opportunità. Vorrei creare un marchio e ho un progetto per un museo e un centro informazioni. E se anche l’idea si dovesse allargare ad altre zone in Sicilia, Avola resta la vera terra d’origine del rum italiano». La prima raccolta è avvenuta tra dicembre e aprile di quest’anno, seguita dalla spremitura e da una fermentazione durata dai 4 ai 10 giorni usando gli stessi lieviti impiegati per il Nero d’Avola. Poi c’è stata la fase della distillazione, in rame con metodo discontinuo.
Dopo qualche mese di riposo, il prodotto è stato imbottigliato al 52%. Già prenotate le prime 200 bottiglie, si prevede di arrivare entro fine anno a un migliaio circa. Ad aiutare Bellia nel dare personalità all’ottima materia prima è Giovanni La Fauci, titolare e maestro distillatore della storica Distilleria Giovi, azienda famigliare che da 40 anni fa qualità in Sicilia, vicino Messina. Tutto local insomma. Il risultato è, più che sotto gli occhi, sotto la bocca di tutti.
Esperti italiani tra i più stimati del settore, come Marco Graziano e Leonardo Pinto, hanno dato il loro sincero endorsement al progetto: «Anche a chi non è appassionato di rum e distillati non può sfuggire l’importanza di quanto sta accadendo ad Avola» dice Pinto. «È un prodotto nuovo che affonda però le sue radici nella storia siciliana, ed esprime il terroir con una materia prima di ottima qualità e una lavorazione che la valorizza al meglio. Abbiamo così un rum ricco, aromatico, in cui le classiche note erbacee dell’”agricolo” sono arrotondate in modo elegante. Si esprime molto bene bianco, poi si vedrà in futuro con le prove di invecchiamento. Perfetto da solo, da esaltare in un cocktail o da gustare con dell’ottima cioccolata di Modica. Un prodotto dal grande potenziale che sta già destando molta curiosità tra gli appassionati».