Quando, lo scorso 14 novembre, sono state rese note le novità della Guida Michelin Italia 2024 – che pure negli ultimi anni è assai attenta a quel che accade in Campania, seconda regione per numero di macarons, mentre Napoli è in cima alla classifica delle province stellate – in molti sono rimasti delusi di non vedere il nome di Marotta. Già da un paio di anni almeno, il ristorante aperto nel 2019 dallo chef Domenico Marotta all’interno della struttura per ricevimenti di famiglia Villa La Collinetta, è sulle rotte degli appassionati di gastronomia che – anche grazie a un accalorato passaparola – fanno tappa nella campagna casertana tra Squille e Castel Campagnano (affiancando magari una sosta da Franco Pepe e una visita al caseificio Il Casolare o ai tanti altri indirizzi degni di nota nel territorio circostante) per sedersi alla sua tavola.
E, decisamente, gli ingredienti per ambire alla stella ci sono tutti: un locale moderno e accogliente, separato dal resto della struttura fin dall’ingresso, dove ogni dettaglio è curatissimo e racconta il territorio grazie al lavoro degli artigiani locali chiamati a realizzare tavoli, sedie e decori; un’accoglienza impeccabile e premurosa, affidata in primis alla brava Anna Coppola che in sala accompagna la cena con racconti di vini e prodotti; e non ultima una cucina che sfugge a definizioni tagliate con l’accetta ma che rappresenta certamente quel che oggi in molti si aspettano da una grande tavola: ingredienti di qualità spesso in arrivo dalle immediate vicinanze se non raccolti da sé, grande maestria nelle tecniche di cucina il cui orizzonte spazia dalla Francia al Giappone, tanta attenzione al territorio e alla tradizione senza rischio di cadere nella banalità, sapori che appagano e che spesso sanno sorprendere pur senza cercare la provocazione a tutti i costi.
D’altronde Domenico era partito da Squille – dove aveva iniziato nelle cucine del locale di famiglia – proprio con l’intento di comporre un bagaglio di esperienze e conoscenze che gli permettesse poi di trovare una sua via personale: «Non ho mai lavorato con grandi cuochi della Campania, e oggi posso dire che non mi dispiace: mi ha aiutato a interpretare il territorio col mio punto di vista». Così ha composto un percorso in cui ogni esperienza ha lasciato il segno, e ha seminato qualcosa per il futuro: da Andrea Berton, all’epoca di Trussardi alla Scala, si è misurato per la prima volta col lavoro in una brigata di fine dining. A Parigi per oltre tre anni ha appreso le basi solide della cucina francese (e non solo) ma con sguardo contemporaneo con lo chef MOF Eric Frechon al ristorante dell’hotel Bristol, perfezionando cotture, fondi e salse. Poi all’Arpège di Alain Passard dove si è avvicinato al mondo delle verdure e a un nuovo approccio alla materia prima: «Lì tutti gli schemi si sono rotti, lo chef diceva: “Dimentica tutto quello che hai visto prima”. Così nasce una cucina immediata, personale, basata molto sull’improvvisazione e sulla stagionalità. È stata un’esperienza molto formativa», ricorda Marotta.
Dopo uno stage nelle Fiandre da In De Wulf – il ristorante ormai chiuso dello chef belga Kobe Desramaults, che oggi si divide tra la Sicilia e il resto del mondo – per studiare da vicino la cucina nordica tra foraging e fermentazioni («bisogna conoscerle, poi decidi di usarle o meno», afferma sensatamente Marotta), oltre tre anni a Piazza Duomo da Enrico Crippa hanno completato la sua “formazione vegetale” e contribuito a definire quella che sarebbe stata la sua linea di cucina: «Ho iniziato dalle basi, tagliando germogli, fino ad arrivare ai secondi accanto ad Antonio Zaccardi (oggi al Pashà di Conversano, ndr). Da Crippa ho appreso soprattutto l’essenzialità e il legame con il Giappone, un Paese che da sempre mi incuriosiva, pur mantenendo solide basi italiane e il filo conduttore vegetale». È così che, mentre iniziano a concretizzarsi il ritorno a Squille e l’apertura di un ristorante tutto suo, parte per uno stage a Tokyo per conoscere la cucina kaiseki ma nell’interpretazione d’eccezione di Seiji Yamamoto: «In tre mesi al RyuGin ho capito dove volessi andare, collegando un po’ tutte le esperienze fatte fino ad allora: ho compreso la maniacalità giapponese nel non voler rovinare il prodotto, l’importanza della pulizia dei sapori e dell’eliminazione del superfluo, per concentrarsi sul gusto al 100%», racconta ancora lo chef.
Riassume bene tutto questo il nome che ha deciso di dare al suo menu degustazione – sulla carta illustrata stagione dopo stagione dal bel tratto dell’artista napoletano Salvatore Troiano, di stanza a Telese – che può comporsi da cinque a nove portate lasciando carta bianca alla cucina: Radici&Innesti, a sottolineare come dalle basi salde della gastronomia campana e locale possano germogliare nuove idee e nuovi sapori: «Amo lavorare sul territorio ma non voglio mettere da parte quello che ho fatto in precedenza, e quello che ho voglia di fare in futuro – spiega lo chef –. L’idea è di partire con i piedi dove sono ma poi, come accade con le piante, innestare dell’altro per creare qualcosa di diverso e nuovo».
A tavola da Marotta ci si sofferma volentieri a lungo, lasciandosi coccolare dalle attenzioni del personale e da tanti assaggi interessanti, a cominciare dalla sequenza inziale incentrata soprattutto sul mondo vegetale – con foglie e radici marinate, fermentate o accompagnate da spezie – e qualche incursione tra le proteine animali: dal mantecato mediterraneo di “scarti” dei pesci usati in cucina profumati da capperi, colatura e altri elementi sapidi alle lumache – siamo d’altronde in via Marrochelle, che è il nome dialettale delle chiocciole – proposte in tante versioni diverse, da quella alla brace con il rafano a quella ispirata alla Calabria con ‘nduja e bergamotto.
Pochissimi i piatti signature che non lasciano mai il menu, tra cui la strepitosa Insalata nera e gamberi viola: una sorta di “caccia al tesoro” gastronomica in cui il commensale scopre di volta in volta le sfumature aromatiche delle diverse insalate ed erbe spontanee, ricoperte da un velo nero traslucido (a base di alghe, semi, erbe, colatura d’alici e brodo di mare, con il nero di seppia a rafforzarne il tono nero) che dà un tocco rotondo e umami a ogni boccone e rende difficile identificare le singole foglie: «Puoi immaginare che gusto abbia ma finché non assaggi non lo capisci realmente. Qualcuno ha osservato che servirle con accanto i gamberi crudi sia superfluo ma volevo invece sottolineare come, lavorata in certo modo, una foglia possa essere gustativamente all’altezza di un prodotto più pregiato».
Il menu tra autunno e inverno può proseguire con gli avvolgenti Ravioli di cinghiale in consommé di funghi e alloro, con l’Agnello con aglio bruciato, nocciola ed eucalipto (accompagnato in tavola dalle animelle e dal “soffritto” di tradizione partenopea, serviti a parte) o con l’estemporanea e buonissima Trota salmonata con bietole e salsa di uova di salmone. Per poi concludersi con la Zuppa inglese sempre di scuola napoletana con i diversi elementi (crema, amarena, panna e cacao) da raccogliere con una piccola brioche a mo’ di scarpetta, e con un’ultima sequenza di assaggi moderatamente dolci che vanno dalla frutta fresca – memorabile il cachi vaniglia con peperoncino acido – al biscottino al tabacco e vaniglia farcito di cioccolato e crema, servito tra le foglie di tabacco che un tempo in zona venivano appese ad essiccare nelle piantagioni locali. Insomma, non c’è bisogno di seguire gli astri per prenotare da Marotta. Anzi meglio farlo prima che diventi troppo difficile trovar posto a uno dei pochi tavoli del ristorante.