PUÒ SINTETIZZARE le peculiarità di un territorio, può raccontare la storia e i valori di una famiglia, può tradurre in immagini l’identità di un vino e le sue caratteristiche organolettiche, attraverso un processo sinestetico, oppure può essere un (bellissimo) esercizio creativo fine a se stesso: l’etichetta non è solo il biglietto di presentazione di un vino – con il suo corredo obbligatorio di informazioni – ma in molti casi può rappresentare un vero e proprio testo semiotico, da leggere e decifrare prima di avvicinare la bocca al bicchiere.
Che si tratti dell’opera di un grande artista o del progetto grafico di uno studio di design, le etichette d’autore hanno spesso aiutato un vino a entrare nell’immaginario collettivo degli appassionati, a facilitare la fidelizzazione con il pubblico e, in ultimo, a incrementare le vendite. Vale anche il contrario: un’etichetta anonima (o viceversa troppo “urlante”) e non coerente con lo stile del vino può indirizzare altrove la scelta del consumatore.
Se citiamo Donnafugata, ad esempio, è molto probabile che nella vostra testa si materializzi una delle figure femminili ideate dall’artista Stefano Vitali per la generosa gamma di vini dell’azienda siciliana. Così come, tra mille bottiglie sugli scaffali, non potrete non riconoscere gli inconfondibili volti di donna tratteggiati da Alberto Manfredi per l’elegante sangiovese in purezza Pergole Torte di Montevertine.
Ha origini antiche la consuetudine di porre un’etichetta sulla bottiglia di un vino. La collezione più emblematica, per storia e per calibro degli artisti coinvolti, è naturalmente quella di Château Mouton Rothschild. Vendemmia dopo vendemmia Bacon, Chagall, Dalì e Koons, tra gli altri, hanno contribuito al mito del Bordeaux più famoso al mondo. Eppure, quando il giovane pittore e cartellonista Jean Carlu, nel 1924, fece il primo tentativo in stile cubista c’è chi gridò all’ingiuria alla tradizione secolare. Meglio andò con l’annata 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale: il Barone Philippe de Rothschild decise di celebrare la liberazione e di dedicare il suo vino all’Année de la Victorie, commissionando a Philippe Jullian un’immagine simbolica con la “V” della vittoria: era questa la prima etichetta ufficiale di una lunga serie che ancora oggi rappresenta il più riuscito e duraturo dei rapporti tra arte e vino.
Di grande valore è pure il progetto promosso dalla Cantina Produttori di Cormòns, nel Collio friulano: dal 1985 le etichette del Vino della Pace sono state commissionate a grandi artisti come Baj, Ceroli, Manzù e Rauschenberg e le bottiglie inviate ai Capi di Stato di tutto il mondo. Dopo alcuni anni di interruzione, l’iniziativa è ripartita con l’annata 2017, presentata la scorsa primavera.
È già dalla fine degli anni 70 che le cantine, anche in Italia, cominciano a collaborare con artisti e designer: il vino stava diventando un oggetto culturale con una forte corrispondenza con il territorio di origine o con la famiglia produttrice e un’etichetta d’autore era in grado di sublimare questa identità. C’è chi, come la cantina Vietti, ne ha fatto un tratto distintivo vestendo il suo Barolo Villero, a partire dall’annata 1982, con le opere di artisti come Robert Cottingham, Leonid Sokov e Giuseppe Stampone. Le edizioni limitate di cantine che normalmente non si presentano con etichette firmate fanno la gioia dei collezionisti: è il caso di quelle di Miguel Berrocal per Guerrieri Rizzardi di Bardolino o della serie di Jan de Cock per l’Apparita 2009, il merlot fuoriclasse di Castello di Ama. C’è poi il caso dei vignaioli-artisti come Carlo Hauner, che si ispira ai paesaggi eoliani per le etichette della sua Malvasia delle Lipari, o Sandro Chia, massimo esponente della Transavanguardia ma anche proprietario di Castello Romitorio, che presta le sue opere per le etichette del Brunello di Montalcino della Maison.
Perché un’etichetta diventi un piccolo capolavoro non serve necessariamente la mano di un grande artista. Basta (si fa per dire) anche quella di bravo designer. E in Italia ne abbiamo di eccellenti. Come Mario Di Paolo, che nella sua factory di Spoltore (PE), lo Spazio Di Paolo, sforna progetti che fanno il pieno dei più importanti premi internazionali di settore grazie a un linguaggio fuori dagli schemi, a un approccio colto e a un uso innovativo dei materiali e della tecnologia Qualche esempio? L’ormai celebre carpa tridimensionale per la cantina Collefrisio, il pigmento materico estratto dalla polvere vulcanica dell’Etna utilizzato sull’etichetta di Palmento Costanzo e la recente etichetta “fluttuante” e in bassorilievo, con i contorni di un cetaceo, del Barolo Balena di Michele Chiarlo.
A Firenze ci sono ben due studi specializzati: Doni & Associati – che firma la magnifica serie Aeroplan Servaj di Domenico Clerico e il vermentino Litorale per Val delle Rose, tra le tante – e Officina Grafica, che ha curato restyling per Cecchi, Rocca delle Macìe, Mezzacorona e Podere 414, azienda per la quale hanno tratteggiato in forma più goliardica la figura (tragica) del Badilante – così si chiama il vino – ovvero colui che si occupava della bonifica della Maremma.
Anche il mondo della moda è sempre più coinvolto in questa liaison. Lo stilista Antonio Marras, con il suo stile non convenzionale, ha interpretato con un efficace storytelling – quattro curiosi personaggi che si incontrano ad Alghero durante la notte di San Giovanni: un marinaio, un pugile, un eccentrico e un uomo ingiustamente accusato di essere un bandito – i vitigni più rappresentativi di Sella & Mosca, la cantina sarda recentemente acquisita da Terra Moretti. La Collezione Grandi Stilisti della cantina siciliana Feudi del Pisciotto – che comprende anche Missoni – ha da poco presentato l’inedita etichetta firmata da Stephan Janson per il nuovo vino bianco Alaziza, da uve viognier e zibibbo.
Aprite gli occhi, dunque. Il vino si gusta anche così.
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