La cucina di uno chef, si sa, è sempre il risultato delle sue esperienze: l’istruzione, le letture, i viaggi, la gavetta e la crescita professionale, le partenze e i ritorni. Per quanto ci si sforzi di etichettarla, incasellarla in ambiti geografici circoscritti, ricondurla a tendenze o – come sempre più spesso accade – ascriverla a retaggi di mamme e nonne cuoche provette, a trasparire sarà sempre l’unicità del suo percorso. È quello che emerge (nitidamente) dai piatti dello chef Marco Feltrin: natali, studi ed esordio trevigiani in cucina e poi tredici anni erratici in giro per il mondo a conoscere, capire e imparare a cucinare partendo dai fondamentali, perché – è lui stesso a puntualizzarlo – «il mestiere di cuoco permetteva di conoscere luoghi, culture e persone del mondo. L’ho scelto per questo».
L’Harry’s Bar di Mayfair, a Londra, è il battesimo nel coté degli stellati, a cui – dopo una breve esperienza in un gastro-pub, palestra di cotture, velocità ed equilibrio – seguono l’Hibiscus di Claude Bosi, due stelle Michelin nel 2009, e l’Apsley, il ristorante del The Lanesborough, allora nelle salde redini di Heinz Beck. Il training, per lui, non può essere migliore, ma l’impostazione rigida di quel modo di lavorare, tutta sbilanciata su forma e tecnica, non lo soddisfa. L’ansia di conoscenza e crescita che lo divora trova invece terreno fertile al Nobu, sempre a Londra, dove entra come capo partita e scopre la cucina Nikkei, la cucina degli immigrati giapponesi in Perù. Ingredienti, salse e sapori per lui inediti gli aprono più di uno spiraglio: è in quella fusion che trova quello che cerca, il tipo di identità che ha in mente di trasmettere in cucina, l’esperienza formativa che contraddistinguerà la filosofia del Feria. Gli inviti di alcuni suoi ex-colleghi diventati nel frattempo amici lo portano poi in Australia , a Sidney, in un posto – il LuMi – dove mette a frutto le esperienze acquisite e inizia a capire come mandare davvero avanti una cucina e successivamente a Singapore, dove cerca un socio per aprire un ristorante tutto suo ma trova l’amore: si chiama Sriyanti ed è indonesiana. È lei a portarlo ancora più a Sud – a Sud-Est per l’esattezza – a Giacarta, dove il clima, il cibo e la gente sembrano premesse di una lunghissima permanenza, ma da cui – precorrendo a causa del Covid i tempi – si allontana per fare ritorno, insieme a moglie e figli, nella sua “Itaca”, Treviso, e mettere a disposizione di una città poco incline al fine-dining e poco propensa ai deragliamenti dalla tradizione la sua idea di ristorazione.
La concretizza, fatalmente, negli stessi locali di quella Vineria dove aveva mosso i primi passi del suo percorso di affrancamento da un destino segnato – quello nell’azienda di famiglia, design d’avanguardia nel campo dell’arredamento – e dove Regis Ramos Freitas, socio e amico, sommelier di rango e wine pairer di raro talento, aveva a sua volta affiancato lo chef Francesco Brutto prima che questi , chiamato dai Bisol, approdasse in Laguna, al Venissa di Mazzorbo. In uno spazio concepito e arredato con rigore e stile assolutamente contemporanei, dove l’esotico è solo “suggerito” e mai urlato, va in scena – letteralmente, dal momento che la cucina è a vista e domina la sala come una sorta di panopticon – una delle cucine più apolidi e agnostiche che si trovino in giro negli ultimi tempi. Se il Sud-Est asiatico è il tema fortemente ispiratore di tutti i piatti in carta, tanto da intitolarli come i capisaldi della cucina tradizionale indonesiana, l’esito è palesemente influenzato della formazione classica e al tempo stesso eclettica dello chef. Le cotture millimetriche, le salse ben dosate, l’uso sapiente delle spezie, gli impiattamenti curati e l’equilibrio delle piccantezze, nota prevalente e condizionante della cucina indonesiana, denunciano una maturità, un controllo del processo creativo e, al tempo stesso, un approccio disincantato che solo un percorso trasversale, indipendente e un po’ eretico può assicurare. Se il Rujak, l’Hati, il Mie Arsik o il Randong rimangono più in mente – e sono motivo di ritorno – come Ventresca di tonno e pomelo; Animella e cuore di carciofo; Noodles con anguilla e ginseng o “Pezzata Rossa” con cocco e cannella non è perché la sua non sia una vera cucina indonesiana, ma perché è riuscito ad andare oltre e renderla universale.