Davanti a Procida ci sentiamo tutti Michael Radford che inquadra per la prima volta Massimo Troisi nell’incipit de Il Postino: possiamo fotografarla, possiamo farcela raccontare, ma molto del senso di questa isola ci verrà precluso. Più volte fortificata e saccheggiata (in ultimo nel Cinquecento dai Saraceni), solo di recente ha fatto i conti con il proprio destino turistico – romantico e slow – sensibilizzando il carattere dei procidani, schivo e diffidente come la costa frastagliata che li preserva, umorale come le zone basse e sabbiose (su tutte l’ex spiaggia di Pozzo Vecchio, ribattezzata appunto del Postino) che contribuiscono ad aprire i loro animi. A venirci incontro, però, è la sua stessa fragranza, quella che quando si sbarca al porto di Marina Grande invita a non fermarsi al primo bar per andare alla conquista del dolce simbolo di tutta una comunità: la lingua di Procida. Una friabile doppia sfoglia ripiena di crema pasticcera (le varianti con limone e cioccolato sono più recenti) che non dà il tempo di essere morsa e, già al primo affondo, comincia a sbriciolarsi tra le mani. C’è chi la chiama di “bue” per la forma allungata simile a quella del pio animale, mentre per altri è di “suocera” per via del suo contenuto dolce e aspro (in riferimento alla crema di agrume) che ammicca al rapporto odi et amo con la madre del proprio marito o della propria moglie. Queste, però, sono chiacchiere da bar, dove tra l’altro è nata. Ecco, allora, che conosciamo il Bar Roma, al centro della marina di “Sènt’ Cò” (come i procidani chiamano l’area del porto commerciale), luogo simbolo del fermento culturale, almeno negli anni 50, quando i tavolini si trasformavano in scrittoi per intellettuali, attirando tra i clienti Elsa Morante e Alberto Moravia. Sebbene la lingua continui a essere sfornata (anche) qui, oggi per assaggiare l’originale ricetta bisogna spingersi fino a Dolci Peccati, forno e pasticceria che si nasconde lungo via Vittorio Emanuele, una delle tante minuscole strade dell’entroterra costellate dalle bandierine rosa che sventolano Procida Capitale italiana della cultura per l’anno 2022, allo slogan di “La cultura non isola”. In queste stesse strettoie rampicanti, in cui si fatica a capire quando il senso di marcia diventa doppio, tra l’asfalto liscio e le spigolose pietre che scandiscono il traffico delle bici elettriche – nettamente più numerose delle due ruote a benzina che nella stagione estiva vengono limitate dai blocchi del traffico – c’è anche Il Piccolo Forno Senza Glutine della famiglia Proietti. Panettieri alla vecchia maniera per quarant’anni, hanno segnalato la più recente attività gluten free con due targhe fuori la porta d’ingresso ad arco, qualificandosi altresì come laboratorio artigianale di marmellate e condendo il tutto con la brezza agrumata delle “cupole” di alberi di limoni che crescono nel loro giardino, e così in quello di molte case sull’isola.
Non potete dire di essere stati a Procida senza aver assaggiato l’insalata di limone pane (salvo che veniate in estate quando non è più stagione: il periodo di massima di maturazione è, infatti, a marzo, da cui il soprannome marzaioli). Derivato da un curioso incrocio tra un arancio e un cedro, questo agrume giallo dal gusto inaspettatamente dolce ha una parte interna ben sviluppata e assai spugnosa che trova un perfetto equilibrio nel mix povero di cipolla, peperoncino, menta, olio extravergine di oliva e sale. Tra gli irriducibili ristoranti con stabilimento balneare che l’hanno proposta in questa fine di giugno, siamo stati Da Girone alla Chiaiolella (non rinunciate a fare la scarpetta con il loro pane cotto a legna!). Il limone appartiene così tanto alla tavola procidana che Bruno e Francesco, i cuochi di Da Girone, hanno contribuito a offrirne una nuova interpretazione con il “Pestolimò”, un vasetto in cui si incontrano foglie di basilico, pinoli, aglio e succo di limoni, of course. Consigliato in abbinamento agli spaghetti di cozze, ma anche per esaltare carni arrosto e pesci grigliati, il suo impiego è diventato talmente diffuso e arbitrario che al SeaBar accompagna i salumi di mare. Tornando in zona porto, Luca Maiorano già da qualche anno ha avviato un progetto poliedrico negli spazi che, agli inizi del XX secolo, ospitavano il vecchio mattatoio di Procida. Centro estetico al primo piano, corner di sartoria italiana e format di cocktail bar con cucina al livello del mare, questo luogo è stato recentemente ristrutturato per far convivere l’anima più autentica dell’isola, restituita da scale rampanti e pareti color pastello che simulano le casupole a grappolo giù alla Corricella, mescolate a un tocco cosmopolita che infonde qualche segnale di svecchiamento. Se la drink list estiva gioca sui “Twist of Procida”, ad esempio, con il Procida Greyhouse che miscela Corricella gin (un London Dry Gin prodotto dalla più antica distilleria d’Inghilterra con un infuso di agrumi verdi procidani), Campari, succo di limone e di pompelmo, sciroppo di zucchero, i più attenti noteranno che nel menu gastronomico sono presenti alcune voci decisamente ambiziose rispetto agli standard del posto. “Mareas” è, infatti, il racconto di un mare 2.0 in collaborazione con lo chef ischitano Pasquale Palamaro del ristorante Indaco, una stella Michelin sulla più grande isola consorella, e il suo Marificio, da cui Luca attinge prosciutto di ricciola, girello di pesce spada oppure bresaola di tonno.
Non bisogna chiedere di più a quest’isola che rifugge dalla mondanità e dagli ambiti aperitivi in terrazza. Stando qui vi convincerete anche voi, come la scrittrice de L’isola di Arturo, che vi basterà essere uno scorfano – “ch’è il pesce più brutto che c’è” – pur di ritrovarvi laggiù, a scherzare con l’acqua. «Ecco perché ho abbandonato Milano per trasferirmi a Procida». Originaria della provincia di Caserta, Gabriela Cistino ha un recente passato da food designer nel capoluogo lombardo, e neanche il tempo di ambientarsi sull’isola che scoppia una pandemia mondiale. Poi, ha inaugurato Cribìo, pronunciato a libera interpretazione, sia accentando la prima “i” come nell’esclamazione berlusconiana oppure la seconda vocale per coerenza con il manifesto dell’attività. In questo minimarket di prodotti biologici per adulti e bambini (con tanto di area giochi dedicata che fa felici le mamme), si arriva spesso tramite il passaparola, la più antica e ancora efficace forma di marketing – ha funzionato in questo modo anche per noi! Una professione nuova per un’isola che per generazioni e secoli si è dedicata al mare (qui è nato uno dei più antichi istituti nautici del continente) e dalla quale tantissimi abitanti si sono imbarcati sulle navi andando in tutto il mondo e mantenendo in questo modo le proprie famiglie. A raccontarcelo è Michele Trapanese, nato alla Corricella dove ogni abitazione è stata pensata di un colore diverso affinché i pescatori potessero distinguere la propria tornando a riva. L’ex skipper e attuale pendolare bancario che fa la spola in aliscafo con il capoluogo campano è il fondatore del primo impianto di allevamento di ricci in Italia (c’è chi dice d’Europa). Una start up a conduzione familiare insieme ai figli Chiara e Filippo che, per il nobile scopo di ripopolare questi fondali e la prospettiva di un inedito commercio nella ristorazione, ha trovato l’intesa scientifica con l’Università Federico II di Napoli e l’acquario della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli. «Questo inverno abbiamo finito di scrivere il protocollo – puntualizza Michele –. La prima produzione vedrà la luce nel 2025: per quell’ondata prevediamo di produrre un milione di ricci. Intanto, il prossimo ottobre la FAO sta organizzando proprio a Procida una giornata mondiale dedicata ai ricci di mare». Dopo aver riconsegnato la vostra e-bike al molo, per salpare verso la terraferma, salutate l’isola tenendo in mano la lingua ancora calda e fragrante dell’inizio: diventerà un’abitudine, tanto quanto leggere L’Isola di Arturo in vista del vostro ritorno. E sarà prima di quanto pensiate.
Omaggio a Procida
Nessuno può raccontare Procida meglio di chi qui è nato e ha vissuto, almeno fino a quando la cucina verace di orto e di mare non gli è andata stretta. Così è stato per Gabriele Muro, procidano doc che ha cominciato a lavorare canocchie, sgombri e alici alla Corricella prima di approdare nell’alta ristorazione. Sull’onda di una “fuga dei fornelli” (oltre a lui hanno lasciato l’isola Marco Ambrosino di 28 Posti a Milano, Domenico Scotto, sous chef da Harry’s Piccolo a Trieste e prima di tutti Marco Badalucci dell’omonimo ristorante in Svizzera), Gabriele non ha mai dimenticato la sua isola tanto da dedicarle un menu proprio in occasione dell’anno di Capitale italiana della cultura. “Travolti da un insolito destino nell’azzurro Mare di Procida” è il titolo di un percorso colto e sensibile proposto da Adelaide, ristorante dell’Hotel Vilòn a Roma. Se l’inizio con il “Pesce Fujuto” cita una zuppa popolare a base di pomodoro, aglio e prezzemolo, il dessert “L’oro di Procida” ostenta il profumo dei limoni nel curd e nella mousse.