From Sicily with love

Nella cassata gelato di Ciccio Sultano e Fabrizio Fiorani c’è la sintesi di un’antichissima tradizione che sa essere anche tecnologica e che mescola rigore e sorriso, miseria e nobiltà come nessun’altra al mondo. Nel nome della bellezza

cassata sicily

Sono anni che vado in giro curiosando e intervistando siciliani sul nostro sistema alimentare. Girovago disordinatamente, un po’ perché sono disordinata e il metodo mi paralizza, un po’ perché sono divorata da una curiosità onnivora e una cosa ne tira sempre un’altra. Uno degli aneddoti più sorprendenti l’ho sentito da un anziano pasticciere, attivo dagli anni 60 in un paese dell’entroterra siciliano. Mi disse che, nonostante quando lui era bambino non ci fossero né corrente elettrica né acqua corrente nelle case dove si viveva con famiglia, mulo e galline, a Carnevale si mangiavano i cannoli. È una storia che amo e che racconto sempre, per due motivi. Primo perché questo per me significa che anche nell’estrema povertà c’è sempre e comunque spazio per un momento di piacere alimentare, commisurato ovviamente – non è che mangiassero caviale!

Mangiavano una scorzetta fritta nella sugna, il grasso del maiale scannato a Natale, e la infarcivano di ricotta zuccherata, un prodotto disponibile quasi per chiunque vivesse nella campagna siciliana. L’altro motivo è che quando una serie di ingredienti sono messi assieme per produrre una “sublimeria” così articolata come il cannolo, cioè quando la civilissima arte del cucinare viene parlata anche tra persone che non hanno niente, allora mi pare di essere in presenza di una cultura gastronomica piuttosto speciale. Una cultura che, a dispetto dei baratri sociali, ha saputo creare uno scambio continuo e fertilissimo tra l’alto e il basso e viceversa, sino a creare un tessuto di qualità e varietà gastronomiche che è ubiquo in Sicilia. Ecco come la pasta brioche è diventata un calzone, la pâte feuilletée viene lamellata con lo strutto per la raviola dolce di Caltanissetta e forse anche per la cipollina catanese.

Ma veniamo alla cassata gelato realizzata da Fabrizio Fiorani (premiato come Best Pastry Chef ai Food&Wine Italia Awards 2020, ndr) e Ciccio Sultano per il ristorante Duomo di Ragusa Ibla, un luogo raffinato, appartato, silenzioso che sta a ridosso della maestosa cupola di San Giorgio e si affaccia su un giardino nascosto di frassini e allori come si vedono ancora di rado nei centri antichi della Sicilia. Cosa finge di essere questa creatura lucida e verde come una gelatina giapponese, modellata in uno stampo da budino dell’Ottocento, la quale una volta sventrata si offre pudicamente nel suo candore latteo (il gelato di ricotta), butterata da una vistosa quantità di canditi? Che storia ha? E che senso vuole avere oggi un argomento così elaborato e denso di riferimenti al passato?

«Finge di essere il gelato di campagna, un dolce che ricordo di aver preparato nella pasticceria Sweet di Vittoria, dove lavoravo come apprendista», mi racconta Ciccio, «ed era fatto con la velata, una melassa di zucchero, bianco e colorato (di solito con i colori della bandiera italiana, nda) che veniva farcita di canditi e di frutta secca. Era un dolce festivo, un dolce che si comprava esclusivamente in pasticceria e quindi non casalingo». Ciccio tiene molto alla “non casalinghitudine” della sua cucina: «Io non faccio la torta della nonna e non cedo a una narrazione folcloristica del cibo; se mi va di fare lo sfarzo perché non dovrei farlo? Io indago e racconto l’opulenza del passato con un linguaggio moderno». Quindi questo dolce realizzato dallo chef 2 stelle Michelin insieme al suo pastry chef finge di essere un gelato di campagna ma in realtà è una cassata gelato che nelle sue componenti è in tutto simile alla cassata classica che una volta si faceva solo per Pasqua e adesso vale tutto l’anno. In questo caso la cassata è farcita di gelato di ricotta ed è allestita in uno stampo a cupola. Alla tavola dei commensali desta la stessa “maraviglia” della cupola di Noto: siamo al cuore della poetica barocca che in questa parte della Sicilia, distrutta dal terremoto del 1693 e ricostruita in un cinquantennio, ha prodotto vertiginosità degne delle menti più creative del tempo.

Ma tante altre cose mi vengono in mente mentre osservo la cupola verde smeraldo della cassata gelato; innanzitutto è interessante che Fabrizio, chef pasticciere premiato dai 50 Best con l’Asia’s Best Pastry Chef Award 2019, attivo da anni a Tokyo al fianco di Luca Fantin, allertato sulle cose del mondo, dal dolce composto sul tavolo di Alinea al sushi di Saito, si prenda la libertà di riproporre la “fetta” di dolce e lasci perdere per un minuto l’alta pasticceria in formato bibelot, piccolo gioiellino monouso, ermetico, chiuso in sé, che inevitabilmente salta fuori alla fine di molti pasti michelinati. Una fetta che comporta una sequenza di azioni quali il “decoupage” (mi piace che Fabrizio non trovi altro che il francese per definire un’azione che distingue un cameriere bravo da uno che non lo è), il taglio e l’impiattamento, e che ci riporta a un concetto di servizio al tavolo fatto di gestualità, eleganze e maniere che è anche quello un modo per raccontar storie e riportare il semplice atto del mangiare e di condividere un pasto a un’operazione tra comuni mortali, accorciando la reverenziale distanza tra il cliente e lo chef che orchestra chiuso nella sua torre d’avorio in cucina.

«Se Saito non facesse ogni cosa lì davanti a te il suo sushi avrebbe tutt’altro sapore», mi racconta Fabrizio ed è vero, tutti noi vogliamo saperne di più, vogliamo entrare in contatto, toccare con mano (Covid permettendo), stare assieme e, soprattutto, sapere dove siamo, capire che quello che abbiamo nel piatto è un tutt’uno con il paesaggio alimentare che ci circonda. Poi c’è il coraggio di proporre una versione ludica e surreale di bellezza. Presentarsi con un oggetto che potrebbe tranquillamente essere una borsetta di Dolce e Gabbana, il budino che faceva mia nonna o quei dolci giapponesi che al nostro palato hanno sapore, consistenza e colore assolutamente improbabili, è un gesto coraggioso che sfida l’ovvio e al tempo stesso il super ricercato. Infine, c’è il piacere di anteporre a tutto il gusto. Questo oggetto improbabile ha da essere buono, buono in un senso contemporaneo, ossia nato da una ricerca senza compromessi sulla qualità degli ingredienti, da una attenzione maniacale alla strumentazione: «Ho preferito un antico stampo in rame anziché il silicone – mi spiega Fabrizio – perché la conduzione del freddo è infinitamente migliore».

E, su tutto, una gestione calibrata e attuale del dolce rispetto al salato, dell’amaro rispetto all’acido. La ricotta è quella vaccina perché «ha una sapidità sorprendente, incredibilmente equilibrata nel gusto, mentre il pan di Spagna è bagnato con Alkermes di Santa Maria Novella che equilibra il tutto con delle note piacevolmente amare, e il marzapane non è quello “legale” ossia realizzato con un 30% di mandorle e un 70% di zucchero, bensì con mandorla, pistacchio pelato di Raffadali e solo il 45% di zucchero, che sciogliendosi leggermente impartisce questo aspetto lucido e brillante al marzapane».

Quindi, il gelato è di ricotta e la percentuale di zucchero è la metà di quello che si usa tradizionalmente, i canditi e la frutta confit sono tutti fatti in casa: what else do we need? Qui infine si riesuma anche una tradizione a me cara, quella che io chiamo del cibo “vestito” e non “nudo”. Il cono “a leccare”, come lo chiamava mia nonna, sta alla cassata gelato così come il piatto di spaghetti sta al timballo di San Giovannella. Ora non voglio qui addentrarmi in percorsi astrusi di semiotica o antropologia, quando distinguo cose aperte e nude, appunto, da alimenti chiusi, composti in una sorta di scatola fatta con gli stessi alimenti. C’è un senso di pudicizia e di assenza di sguaiataggine nel cibo vestito, che mio padre ad esempio apprezzava moltissimo e che era quello praticato nella maggior parte delle tavole aristocratiche di tutto il mondo.

Ecco Ciccio Sultano è abbastanza spregiudicato da rivolgersi a questo registro di cose: «Non vieni da uno stellato per mangiare sarde e acciughe», chiosa, invocando la complessità e allo stesso tempo la finzione. Alla faccia del buon vinello sincero del contadino che è sempre stato, notoriamente, veleno.

La ricetta

foto di Giuseppe Bornò