Nella ricerca di un senso logico al caos non serve scomodare Plutarco per trovare un ovvio parallelo tra i “Roaring Twenties” e l’attuale rinascimento della miscelazione italiana e internazionale d’inizio decennio. Ma nel semplificare in similitudini si rischia di far torto ai grandi protagonisti di questa nuova e crescente onda professionale, pensando che quello che sta succedendo dietro ai banconi d’Italia sia qualcosa di già visto prima. In una crescita sana e graduale la Bar Industry nostrana sta infatti abbandonando il “già fatto” e il “già assaggiato”, preferendo una direzione autonoma, spogliata degli stereotipi della categoria. Al posto dei baffi arricciati e dello stile americano, l’ispirazione diventano così i bar di quartiere, il mito dello speakeasy lascia il posto alla classe dell’hôtellerie della Dolce Vita, mentre frutta e verdura di stagione conquistano il centro della proposta, sostituendo l’estenuante ricerca dell’esotico. E il merito di tutto questo è di una nuova generazione di bartender – cresciuti all’ombra di una golden generation capace di insegnare loro a pensare fuori dagli schemi – che ora è pronta a diventare la nuova Italia del bar.
Ritorno al futuro: viva i bar di provincia
Parigi è Parigi, Londra è Londra, e l’Italia è tutta. Se nei più importanti paesi europei esistono delle megalopoli che fungono da attrattori per le nuove aperture e le rendono delle vere e proprie “capitali del gusto”, da noi funziona in modo diverso. Nel mondo del bar, ad esempio, sono almeno tre le città a condividere il podio, ovvero Milano, Roma e Firenze, ma paradossalmente non è da qui che vogliamo cominciare la nostra narrazione, bensì dalla provincia, dove il bar sta tornando a essere il punto centrale dell’aggregazione e la tappa introduttiva ai piaceri del palato per tanti giovani. Molti dei cocktail bar più interessanti aperti negli ultimi anni sono fuori dalle rotte principali, e dietro a questi progetti ci sono giovani imprenditori che si sono formati ai massimi livelli prima di rientrare nelle rispettive città d’origine o in quelle del cuore. Riccardo Pennacchia ha puntato tutto su una piccola chiesa sconsacrata nella Bergamo bassa, un edificio superstite di quando qui c’era la campagna al posto dei capannoni e degli uffici delle aziende. Il suo Sottovoce mantiene la segretezza dello speakeasy, ma sotto le volte affrescate si bevono drink a base di whiskey americano dal sapore contemporaneo come il Kung Fungo (Campari ai porcini, Wild Turkey 101, lampone, soda al pompelmo rosa). Se a Verona l’entusiasmo è palpabile intorno all’eleganza di Romeo Bistrot & Cocktail Bar e alla sua spettacolare bottigliera verticale, a Vignola, nel modenese, ha appena aperto un progetto binario diviso in un cocktail bar chiamato Noblesse e nel ristorante Oblige, che si contaminano anche negli ingredienti come dimostra il Rape rosse per te (vodka alla rapa rossa, Chartreuse verde, aceto di riso, acqua di cocco e basilico). Appena passati gli Appennini, a Barberino di Mugello sorge Elementi, una delle migliori e meno conosciute pizzerie della regione, con annesso cocktail bar di pari livello dove fare aperitivo prima di cena. Spostandosi sul Tirreno, a Pisa, tre bartender erranti dopo una lunga gavetta in giro per la Toscana hanno aperto un locale di qualità, Jeffer, con l’obiettivo di far capire agli studenti che popolano la città cos’è la miscelazione contemporanea. A Livorno il nome da seguire è quello di Alphonse, nascosto sotto il livello della strada, affacciato direttamente sui “fossi” del quartiere Venezia (guai a chiamarli canali), dove il bar si estende su un rimorchiatore attraccato: è sui tavolini a bordo che si può ordinare un Bittersweat (bitter Amaranto, rum mix, limone, sciroppo d’anguria). Se nel Lazio è da segnalare a Bassiano (in provincia di Latina) il Signor Barrie, bar all’interno di un giardino guidato da Giuseppe Tenore, in Abruzzo Carmelo Licata ha aperto il suo Seta Garden Bar a Giulianova, locale capace di far scendere in provincia di Teramo tanti professionisti e addetti ai lavori anche dall’estero. Ma la regione forse più sorprendente è la Campania, dove in città minori sono sorti due dei locali di cui più si parla a livello nazionale, ovvero Laboratorio Folkloristico a Pomigliano d’Arco (Napoli) – salito alla ribalta anche grazie alla vittoria di Vincenzo Pagliara come miglior bartender d’Italia per World Class Italia – e Cinquanta-Spirito Italiano a Pagani, ambizioso progetto multifunzionale ispirato all’Italia del dopoguerra e del boom economico, aperto dalla colazione ma capace di esprimere il meglio di sé la sera, con creazioni quali il Ritorno dell’angelo azzurro (vodka, cioccolato speziato, limone, lampone blu). Dietro a entrambi i progetti ci sono ragazzi che, dopo essersi formati nelle piazze estere più sfidanti, da Londra alla Cina, hanno deciso di rientrare e portare il mondo a casa loro.
Fuori dall’ombra dei giganti
Se tutti gli appassionati del mondo del bar ben conoscono nomi come quelli di Flavio Angiolillo, Luca Manni o Alex Frezza, è altresì vero che questi maestri della miscelazione sono spesso impegnati in ruoli manageriali, in grandi manifestazioni o in progetti di consulenza. A gestire i loro banconi nel quotidiano c’è una generazione di “sous-chef” della mixology che cominciano a far conoscere i propri nomi: questi ragazzi sono il futuro del bar, e le loro carriere sono da seguire con attenzione per capire l’evoluzione della scena. Tra loro troviamo Cosimo Tarducci ed Emanuele Cosi, partiti uno da Prato e l’altro da Firenze per imporsi a Milano. Passati dalla scuola di Luca Manni a quella di Angiolillo, ora i due gestiscono Mag e Iter in zona Navigli – insieme a un’altra talentuosissima bar manager, Camilla Bosatelli. Sempre all’ombra della Madonnina sembra aver preso una rotta nuova Officina con Riccardo Cerboneschi, arrivato qui da Locale, a Firenze, mentre a chiudere la carrellata dei toscani migranti va segnalato Andrea Giraldo al Doping Club di Milano, di supporto all’ottima gestione di Alberto Corvi. In un altro dei più celebri bar d’hotel meneghini, il Bulk (dentro il Viu), puntare sui giovani è consuetudine: ad affiancare il bar manager Ivan Patruno ci sono Silvia Gazocchi e Francesco Amoruso, impeccabili tanto nella preparazione di un GiAn Tonic (creato con il nuovo distillato dello chef Giancarlo Morelli) quanto in quella dei cocktail più complessi in carta. Spostandoci su Firenze è interessante evidenziare come un team giovane sappia togliere la polvere a un caffè storico come Paszkowski: l’head bartender Antonino Sciortino, sotto la supervisione del già citato Manni, ha creato una cocktail list colorata e audace (capace di dissacrare i classici, come nel Martini Tinto a base di vermouth dry, cordiale homemade alla rosa e aroma al limone) che ha fatto scendere l’età media del locale di almeno dieci anni. Se volete prendere lezioni di whisky, il consiglio è di sedervi al bancone di Laura Colistra al LoveCraft di Firenze, per imparare che il nobile distillato può essere molto più rock&roll di quello che vi hanno fatto pensare, e che magari si può bere anche all’aperitivo in un Tipo Americano (bourbon, Campari, soda al pompelmo, twist di limone). A Roma tra le nuove leve è da tenere d’occhio Alice Musso del Blind Pig, mentre non è ormai più una sorpresa Daniele Gambucci, passato dal bancone di Freni e Frizioni a Trastevere a seguire quello della sua nuova versione Draft in autonomia (potremmo citare altri bar, ma del rinascimento della scena romana e di tutti i nuovi indirizzi da non perdere abbiamo parlato nel pezzo “Beviamoci Roma”). Infine da sottolineare il talento cristallino e l’eleganza classica di Dario Tortorella a L’Antiquario di Napoli: è lui a incarnare perfettamente una generazione che vive la contemporaneità ma sa guardare con rispetto al passato, sia nel servizio che nelle creazioni originali come il drink Il Coccodrillo (gin infuso al kaffir lime, grappa, vino aromatizzato, gocce di maraschino al carcadè). Vale lo stesso discorso per Nicola Loiacono: è lui a fare egregiamente le veci di “the Maestro” Salvatore Calabrese, che ha firmato la carta dell’Igiea Terrazza Bar di Villa Igiea a Palermo. Giovani bar manager, grandi responsabilità L’età ovviamente non è mai una discriminante. Anzi, se il progetto è quello giusto e la proprietà guarda in prospettiva, a volte affidarsi a figure giovani può essere la chiave corretta per trovare il successo. Ne è un esempio lo young team del Mandarin Garden, il bar e bistrot all’interno del Mandarin Oriental di Milano, composto dal bar manager meneghino Andrea Panella e dall’head mixologist di origine calabrese Gaetano Ascone: del nuovo progetto a firma dell’ottimo Guglielmo Miriello i due sono un tassello fondamentale. Restando in Lombardia e sempre nel gruppo Mandarin, da segnalare anche l’ascesa di Gabriele Contatore sul Lago di Como, cresciuto dietro il bancone di cui adesso porta la responsabilità e in cui serve creazioni come il Vico (vodka infusa al lemongrass e lamponi, Amaro Seta, cordiale allo zafferano, soda alle foglie di fico), a dimostrazione che il modello di crescita interna può essere vincente anche in Italia. Angelica Baldan, veneta d’origini ma ormai trapiantata a Milano, dopo essersi fatta le ossa da Carico e al Camparino non ha avuto timori nel prendersi sulle spalle il ruolo di bar manager da Gesto, proprio il bancone lasciato libero da Martina Bonci, nome ormai abbastanza noto da non necessitare di particolari introduzioni, ma che al Gucci Giardino 25 è riuscita in pochi mesi a convincere pubblico e critica grazie a cocktail coloratissimi (in maniera naturale) ed equilibrati, perfetti tanto per cultori del bere bene quanto per le fashion victim di Pitti: a mettere tutti d’accordo è il Mémoire di Negroni. E sempre a Firenze va sottolineato anche il rilancio del Rooftop di The Student Hotel, affidato a Palmira Bertuca, rientrata dopo esperienze a Londra, Barcellona e Singapore. Tappa infine al San Domenico Palace di Taormina, passato sotto la gestione Four Seasons: qui è rientrato dall’estero un altro talento cristallino, ovvero Juri Romano, capace di portare il modello del grande bar d’hotel anche in Sicilia, con stile britannico e ingredientistica locale. Un esempio dal menu? Il Gelosia e Mandolino, preparato con vodka Giovi, distillato di aglio rosso di Nubia e origano, Carlo Alberto bianco, pomodorini di Pachino, capperi, peperoncino dell’Etna, Worcestershire sauce e bitter di sedano.
Nuove generazioni, nuove tendenze: in che direzione guarderà il bar nei prossimi anni?
Creare una nuova idea di bar passa anche dal ragionare più approfonditamente su ciò che si mette nel bicchiere. Ci sono dei trend ormai consolidati e altri in fase di emersione che potrebbero caratterizzare ciò che berremo nei prossimi anni. Una battaglia innegabilmente trasversale è quella della sostenibilità: cominciata come movimento per l’abolizione delle cannucce in plastica monouso, si è evoluta in qualcosa di più ragionato che vede ben presente il concetto di zero waste nella gestione quotidiana del bar e, al contempo, il fiorire di nuovi brand a basso impatto. Un’altra direzione a cui guardare è quella del Low ABV (ovvero la tendenza ad abbassare la gradazione alcolica dei drink) oppure quella delle colorazioni naturali, in cui nuovi pigmenti prendono il posto della chimica: il blu E131 è morto, lunga vita all’alga spirulina e al butterfly pea. In ambito tecnico, nonostante sopravvivano (e sopravviveranno) affumicature e sferificazioni, la nuova frontiera è ovviamente quella delle fermentazioni, con la riscoperta dei kombucha, mentre a livello palatale finalmente si osa addentrarsi “oltre lo specchio”, spingendo su sapido e umami, andando a riprendere quel percorso gastronomico (di cui fanno parte classici come il Dirty Martini, il Bullshot o il Bloody Mary) che si era perso con l’utilizzo del dolce per coprire l’alcol negli anni 90. Nella disputa dei bicchieri, mentre continua la tensione tra lo stile minimale londinese e le spettacolari garnish all’americana, ecco l’inarrestabile crescita dei craft spirits. Tra prodotti di qualità e prodotti d’etichetta che si confondono nella testa del consumatore (e spesso anche degli addetti ai lavori) c’è uno sviluppo (parzialmente) inatteso: dopo i gin e i vermouth c’è anche chi ha il coraggio di sfidare i grandi monopolisti di categoria proponendo bitter (Fusetti, Schiavo, Winestillery, Amaranto), Amaretto (Adriatico) e Fernet (Schiavo, Fred Jerbis). In ogni caso, quando l’onda di marea si ritrarrà, sarà interessante vedere quali bottiglie resteranno sulla spiaggia e quali invece saranno tirate via dallo sgonfiarsi della bolla.
L’Italia è un paese competitivo?
Se vi fermaste a leggere qui, l’idea di fondo che potreste avere è quella di un paese felice, allineato con il resto del mondo, pieno di possibilità per i giovani. Ma la realtà ovviamente è più complessa di così: sorvolando su problematiche comuni a tutto il settore dell’hospitality (turni massacranti, stipendi inadeguati, lavoro in nero…), il mondo del bar pone altri quesiti. Ad esempio, nonostante l’apologia del bar di provincia di cui sopra, il pubblico è lontano dal conferire il giusto valore economico ai drink, e difficilmente fuori dai grandi centri urbani si riesce a superare il prezzo di 7-8 euro a cocktail. Al contempo, pare che non ci sia hotel, ristorante e pizzeria di nuova apertura che non voglia includere un’offerta di miscelazione. È una vittoria? Oppure si rischia di rendere il bar solo una commodity pretenziosa sperando di aumentare le marginalità? Le domande sono molte, e per provare a dare qualche risposta ci siamo rivolti a due giovani bartender italiani che all’inizio della pandemia sono rientrati da Londra, per poi riprendere la strada verso l’estero. Perché? «Dopo un periodo di stop forzato in Italia a causa del Covid-19 – racconta Alice Bindini dall’Arabia Saudita, dov’è oggi la bar manager di AOK Kitchen, a Riyadh – sono ripartita appena ho potuto. L’Italia purtroppo è un paese non adatto a chi opera nell’hospitality, mancano i contratti e non c’è alcuna prospettiva decente a medio o lungo termine. Ho trovato condizioni largamente migliori in tutti gli altri paesi stranieri in cui ho lavorato». Anche Leonardo Filippini ha preferito continuare la sua diaspora, direzione Svizzera: «In Italia nessuno si è impegnato nel garantirmi che nel caso di un’altra ondata i miei diritti sarebbero stati tutelati – spiega – mentre qui non solo mi sento tranquillo anche in caso di emergenza, ma addirittura riesco a mettere da parte un piccolo capitale che magari servirà ad aprire un mio locale». Dove? «In Italia, ovviamente. Forse non è il mio presente, ma spero sia il mio futuro».