La creatività, secondo Bruno Munari — uno dei più brillanti protagonisti del design e dell’arte italiana del XX secolo — è una questione collettiva. A chi progetta i beni che entrano nel tessuto degli usi, dei consumi e delle abitudini quotidiane, appartiene la responsabilità di unire fantasia e ragione, modellare la forma sulla funzione e, possibilmente, replicare quello che la natura fa ogni giorno: adattarsi al cambiamento, plasmando la fisionomia degli oggetti per adeguarla al loro uso. Ha elogiato l’arancia con i suoi spicchi ben proporzionati e la scorza semplice da sbucciare, i piselli e le loro “pillole” strette in pratici “contenitori bivalve” e probabilmente, avesse assistito alla “rivoluzione bianca” degli ultimi anni, avrebbe detto la sua anche a proposito del pane. Se proprio nella Milano del grande design è germinata, agli inizi dei Duemila, la nuova energia della panificazione contemporanea — attorno all’alimento che forse più a fondo e dai tempi più antichi intreccia la vitalità del mondo agricolo alla sfera della civiltà e dei costrutti sociali, in una rete di rimandi simbolici ed ecologici — lo si deve in buona parte a Davide Longoni. Una laurea in geografia e una visione a largo raggio, la sua, che l’ha portato a perfezionare non solo la ricerca delle migliori farine e tecniche di lievitazione, ma anche a interrogarsi su strutture e pezzature: «La forma finale riflette ragionamenti sulle modalità di consumo: i pani grossi sono propri della tradizione rurale, mentre nelle città prevalevano quelli piccoli, sfiziosi, adatti a invogliare un pubblico pigro e raffinato». Eclettico e votato alla condivisione, è tra i fondatori del collettivo PAU-Panificatori Agricoli Urbani, che riunisce 82 fornai da tutta Italia e il suo mestiere non si esaurisce tra le mura della bottega. Editore e ideatore di MadreProject, la Scuola del Pane e dei Luoghi che sta nascendo alle porte di Milano, Longoni è il promotore di un approccio critico al tema, per riportarlo — denaturato da decenni di demonizzazioni dietetiche e procedimenti industriali — al centro di un discorso culturale esteso. Del pensiero sull’arte bianca si occupa da tempo anche Laura Lazzaroni, giornalista e autrice esperta di panificazione, che sullo stesso argomento riassume: «La michetta è un magnifico esempio di design popolare, mentre i tagli sul pane di Matera hanno un significato tecnico, ma lo rendono anche un oggetto quasi scultoreo», provando quanto questo ambito affascini non solo gli artigiani, ma anche chi osserva e comunica i valori della gastronomia contemporanea.
Tra i professionisti che da Longoni hanno appreso tanto il saper fare quanto il saper pensare c’è Pasquale Polito, che insieme a Davide Sarti (formato presso un altro maestro del settore, Gabriele Bonci) ha aperto nel 2015 il primo negozio bolognese di Forno Brisa. Solide radici contadine, con i grani che arrivano dai campi di proprietà in Abruzzo o da selezionati produttori della provincia emiliana, e un obiettivo più che ambizioso: diventare i “Michael Jordan del pane”. In altre parole, trasformare quello del panettiere in un mestiere cool e contemporaneo, come è possibile e giusto che sia. La strada che stanno percorrendo è spianata da una strategia di comunicazione fresca e trasparente, che racconta con tono preciso ma scanzonato la filosofia aziendale e tutti i valori che il prodotto concentra: sul sacchetto nel quale consegnano i grandi pani di Nocciano o il Made in Bo (da farine bolognesi e col profilo inciso delle due torri) una grafica dichiara come, comprando quella pagnotta, si stia portando a casa il frutto di 9 metri quadri di terra. Il packaging parla direttamente al pubblico, come il miglior product design dovrebbe fare, grazie anche al prezioso contributo di Anna Corai, giovanissima fotografa che mette al servizio di Brisa le sue idee (sì, in squadra ci sono grafici e creativi). Se i ragazzi contano oggi quattro punti vendita in città e sfornano senza sosta lievitati — i panettoni e le colombe, quando è stagione, sono richiestissimi — e nuove iniziative, la strategia sembra azzeccata.
[ngg src=”galleries” ids=”59″ display=”basic_thumbnail”]Nel cuore di quella Puglia che nelle tradizioni cerealicole ha scritto la propria storia rurale e gastronomica, Luca Lacalamita ha fatto ritorno a Trani, dopo molti anni di esperienza nell’alta ristorazione, per impiantare Lula, un progetto dedicato esclusivamente a pane e dessert. Nutrimento irrinunciabile ed essenziale da un lato, concessione superflua ed edonistica dall’altro (anche se «niente è più necessario del superfluo», come diceva un certo Oscar Wilde) entrambi i comparti sono trattati con la stessa fedeltà al territorio — nella selezione severa delle materie prime a filiera corta —, e la medesima sensibilità estetica. I prodotti esposti sul grande banco a vista sono ogni volta precisi, puliti e soprattutto ragionati. Nel Rosone di Trani, il pane-manifesto della casa, forma e contenuto combaciano, rinforzandosi a vicenda: al cuore, una selezione di tre grani duri provenienti da Gargano, Tavoliere e Rutigliano; in superficie, il motivo circolare che fora la facciata romanica della cattedrale della città, impresso con un apposito stencil. Da Lula, la cura del processo non riguarda la sola panificazione, ma pure il consumo. Lacalamita vorrebbe avvenisse anche direttamente in negozio, e per questo ha immaginato il locale come uno spazio accogliente, con al centro un grande tavolo sociale che invita alla condivisione. Alle pareti, i colorati schizzi che traccia mentre progetta i suoi “disegni da mangiare”. Ed è un salotto intimo e d’atmosfera, che dà un senso nuovo all’idea canonica di panificio, anche il negozio-boutique Tulipane, recente creatura romana di Sara Bonamini e Flaminia Fratini. Una carriera nel giornalismo enogastronomico la prima e nell’interior design la seconda, cucite nel segno dell’amore per l’arte bianca. Insieme al pane, naturalmente agricolo e da lievitazione naturale, è degna di nota anche la gastronomia (grazie alla quale se ne reimpiegano le eccedenze) e l’ottimo caffè, proveniente proprio dalla torrefazione dei ragazzi di Brisa. Tutto intorno, uno scrigno cosy e ricercato, risultato della selezione di arredi d’antan, pittura contemporanea e pezzi di artigianato che si possono anche portare a casa. I motivi floreali dipinti a mano sui banconi decorano ugualmente i sacchetti per l’incarto del pane e le piccole box d’asporto, ultimo pezzo di un puzzle visivo la cui coerenza è stata delineata dalle proprietarie insieme a Studio Terso. Presentare un prodotto realizzato con cura in un vestito di uguale grazia ed eleganza, secondo loro, significa orientare il consumatore verso un acquisto più oculato, una degustazione più consapevole e una conservazione più attenta.
Se all’interno di Tilde Forno Marisol Malatesta e Simone Conti organizzano addirittura mostre e residenze artistiche (leggi box dedicato) — dimostrando come i confini tra artigianalità e arte, per chi persegue nel proprio lavoro la combinazione tra sapienza manuale e intelligenza, siano estremamente labili — a Senigallia Francesca Casci Ceccacci pensa a come ottenere risultati diversi. Nel suo Pandefrà, a seconda che siano destinati al consumo casalingo oppure alle tavole dei migliori chef della zona (è stato Mauro Uliassi a chiederle per primo di occuparsi del suo ristorante), il processo di produzione prevede forme, pezzature e ingredienti differenti. Dal grande filone casereccio marchigiano, realizzato con farine integrali da cereali moliti in campagna e cotto un po’ più a lungo per rendere la crosta fragrante e croccante, ai piccoli panini alle alghe ideati per accompagnare la raffinata cucina di pesce del cuoco tristellato, i prodotti prendono di volta in volta la conformazione ideale per la condivisione in famiglia oppure rispondono alle necessità — in termini di gusto, consistenza e struttura — di un servizio preciso. In tutti i casi, la sensibilità che Francesca e i suoi colleghi fornai “del presente e del futuro” esercita su un materiale vivo e mutevole (il processo della lievitazione, che ha affascinato i panificatori antichi e che continua a essere simbolo di cura e nutrimento, non è mai totalmente prevedibile) impasta una posizione critica verso la materia prima e le pratiche agricolturali insieme al rispetto dei contenuti nutrizionali, la storia che raccontano i formati tradizionali insieme alla lettura del modo in cui, oggi, si mangia il pane. I loro gesti sono misurati e consapevoli, come quando incidono la superficie delle pagnotte poco prima di infornarle: i tagli, con la loro profondità e inclinazione precisa, spezzano la maglia glutinica per liberare l’aria e l’umidità che faranno sviluppare la forma e uniformare la cottura, ma al contempo creano un disegno armonico sulla superficie, dando a ogni pezzo una personalità visiva fatta di texture e contrasti cromatici. Belli da vedere e buonissimi da mangiare.
Tilde, al forno delle meraviglie si inaugura una nuova mostra
Prima di conoscere Simone Conti e decidere di seguirlo a Treviglio per aprire insieme un panificio, Marisol Malatesta faceva l’artista. E in fondo lo fa tuttora, nonostante non si muova più tra aule di accademia e gallerie bensì tra mulini, farine e impasti. Dal 2017, all’attività del forno ha affiancato quella di Spazio Tilde, nato per allargare l’ambito della produzione a un discorso più ampio sul pane e la gastronomia e pensare a come l’attività artigianale si leghi a dinamiche politiche, tecnologiche e culturali. «Crediamo che la varietà dei punti di vista — esattamente come la biodiversità dei semi nei campi — sia un valore critico essenziale per la nostra crescita», racconta Marisol a proposito della decisione di aprire le porte ad artisti e creativi, che una volta l’anno sono chiamati a esporre all’interno del forno, tra gli scaffali e i banchi del pane. Progetti collettivi dedicati proprio alla collettività, alla quale il pubblico partecipa sin dall’ingresso in negozio. E lo fa osservando gli strani alimenti del futuro dipinti nelle gouache di Malatesta o in maniera davvero attiva, invitato a portare a casa uno dei grandi cracker, un po’ snack e un po’ scultura, in cambio soltanto di una fotografia.
Da giovedì 10 a sabato 12 novembre, inoltre, Spazio Tilde apre nuovamente le porte all’arte contemporanea (nonostante, nel lavoro quotidiano, ricerca e creatività non manchino in fondo mai), unendosi al coro di iniziative di ArtDate. Organizzato ogni anno dall’associazione The Blank in collaborazione con il Comune di Bergamo, il weekend dedicato ai linguaggi visivi porta nel capoluogo lombardo e nella sua provincia un calendario fitto di appuntamenti che questa volta — nella 12ma edizione — sviluppano il tema del “corpo libero”. Tra gallerie, dimore storiche, studio visit e collezioni private si inserisce anche il piccolo forno di Marisol e Simone, con la prima mostra personale dopo una bella serie di progetti di gruppo. Proprio al tema del corpo guarda l’opera del peruviano Esteban Igartua (Lima, 1974) — studi di pittura alla Pontificia Università Cattolica del Perù, poi alla Slade School of Arts e alla Byam Shaw di Londra — l’artista selezionato da Marisol e Simone che nei suoi dipinti descrive paesaggi anatomici e scene dalla vitalità materica. Dettagli che invitano a immergersi negli aspetti organici della vita umana e del suo essere parte di un processo naturale di crescita ed evoluzione ma anche di decadimento e infine rigenerazione. Esattamente quel che accade con il pane, materia viva e vitale che ha ispirato il pennello di Igartua. Vi è mai capitato di ammirare belle tele e insieme scegliere le pagnotte più profumate da portare a casa? Da Tilde, questo fine settimana, si può.