RISO
Chicchi di memoria
Una pentola di riso caldo sui fornelli è indice della prosperità di una famiglia. Quelle di metallo, con il fondo annerito, raccontano la storia di intere generazioni; i graffi sono il ricordo di tempi alterni di ricchezza e di scarsità. Un contenitore di plastica posato sul bancone di cucina è un segno allegorico di sovrabbondanza. L’avventura culinaria dello chef Joseph “JJ” Johnson lo ha portato dalle brigate dei ristoranti di alta cucina a sognare quello che sarebbe diventato FieldTrip, il suo ristorante. Questo locale informale, specializzato in bowls di riso, si trova nella culla della cultura afroamericana, ad Harlem, e in menù Ha piatti come il profumato riso Carolina Gold condito con carne cotta al barbecue. La nonna materna di Johnson, originaria di Puerto Rico, gli ha fornito l’ispirazione per l’asopao, un sostanzioso piatto a base di riso e pollo, con la sola differenza che lui cuoce il riso prima di aggiungerlo alle spezie e al pollo. Est e ovest, nord e sud, il cuore è collegato alle gambe. Dagli schiavi africani che coltivavano la Lowcountry nella Carolina del Sud e in Georgia al locale di Johnson ad Harlem, il riso è il filo che collega generazioni di cucine afroamericane. Quando la pentola a pressione sibila o la voce culinaria di uno chef canta la sua melodia, gli antenati vengono celebrati. – Nicole A. Taylor è la executive food editor di Thrillist.
Asopao
ricetta di JJ Johnson, chef del ristorante Field Trip ad Harlem
OSTRICHE
L’abolizionista che amava le ostriche
All’inizio del XIX secolo, a New York, lavorare nell’industria delle ostriche era normale per molti afroamericani. Nel 1810 l’annuario di New York elencava 27 venditori di ostriche: 16 erano neri. Quando Thomas Downing arrivò da quelle parti nel 1819, portava con sé una profonda conoscenza dei pesci e dei bivalvi della zona. La sua intraprendenza e il suo senso degli affari erano altrettanto sviluppati. Downing era anche abolizionista, ristoratore e imprenditore. Nato da genitori afroamericani liberi e cresciuto sulle coste orientali della Virginia, era perfettamente a suo agio nelle acque dell’Oceano Atlantico. A meno di dieci anni dal suo arrivo a New York, aveva aperto un ristorante di ostriche al numero 5 di Broad Street, a Manhattan. Esattamente come oggi, Broad Street era al centro di un quartiere finanziario affollato da banchieri, agenti di borsa e persone benestanti in genere. A differenza delle più umili oyster cellars dell’epoca, il suo locale era arredato con grandi lampadari, raffinata moquette e pregiati tendaggi, elementi che differenziavano Downing da tutti gli altri venditori di ostriche, non solo afroamericani. Allora le ostriche erano così poco costose che un “all you can eat” costava 6 centesimi. Entro il 1842 diventarono un bene di lusso da 6 milioni di dollari l’anno e Downing guadagnò una fortuna. Grazie al rispetto di cui godeva da parte di esponenti della politica e della finanza, Downing utilizzò la sua eccellente reputazione e il suo capitale per la causa abolizionista. Era solito ospitare gli schiavi in fuga nelle sue cantine. Per Downing l’industria delle ostriche, e più in generale quella della ristorazione, erano uno strumento per perseguire la causa della libertà. Nel 1836 fu tra i fondatori della United Anti-Slavery Society of the City of New York e tra i sostenitori del suffragio universale. Per gli chef afroamericani di oggi, l’eredità morale lasciata da Downing è ancora viva e attuale. Secondo i dati dello U.S. Bureau of Labor Statistics, nel 2018 il 17% dei cuochi e degli head chef erano neri, circa 5 punti percentuali in più della loro presenza in tutti gli altri settori. Secondo i dati della National Restaurant Association, tra il 2007 e il 2012 il numero di ristoranti di proprietà di afroamericani è aumentato quasi del 50%. Nonostante questi numeri sembrino indicare una maggiore partecipazione degli chef neri alle arti culinarie, questi cuochi in realtà provengono da una lunga tradizione di professionisti della ristorazione indipendenti che hanno accettato di occuparsi di mestieri poco ambiti e li hanno trasformati in ruoli di rilievo economico e sociale. E, benché l’industrializzazione e la grande migrazione del XX secolo abbiano portato molti afroamericani fuori dalle cucine, adesso se ne registra un ritorno. Chef come Ashleigh Shanti, BJ Dennis ed Edouardo Jordan stanno mettendo se stessi e la loro storia nel loro lavoro. La loro creatività è in continua evoluzione e ogni boccone è un rimando ai secoli di storia da cui provengono. – Stephen Satterfield è direttore e co-fondatore del periodico di cultura gastronomica Whetstone Magazine.
Ostriche con Pikliz
ricetta di Edouardo Jordan, vincitore del F&W Best New Chef nel 2016 e chef dei ristoranti JuneBaby, Salare, e Lucinda Grain Bar a Seattle.
MANZO
I primi cowboy d’America
Nell’America coloniale, le vacche da macello venivano accudite dagli schiavi, molti dei quali provenivano da popolazioni di pastori dell’Africa Occidentale. Questi uomini avevano portato con sé le conoscenze millenarie dei loro antenati sulla conduzione delle mandrie. In North e South Carolina, venivano chiamati “cacciatori di vacche”; radunavano gli animali per rinchiuderli nei loro recinti per la notte, gestivano le mandrie e macellavano gli esemplari per venderne la carne. Allora come oggi, la carne bovina era un bene prezioso: quella salata nelle botti aveva un ruolo importante nel commercio con le piantagioni di zucchero dei Caraibi, ma anche gli esemplari vivi venivano portati regolarmente ai mercati dei centri urbani per essere venduti. Prima della Guerra Civile le mandrie si spostavano incessantemente verso ovest fino a Texas e Nuovo Messico e, dopo la guerra, il 25% dei cowboy americani era composto da afroamericani. Vale a dire un cowboy su quattro — uomini come Nat Love, Bass Reeves e Bill Pickett — a guidare le mandrie nel lungo viaggio, da due a tre mesi, sulle piste di Shawnee Trail, Chisholm Trail e Goodnight-Loving Trail, per portare la carne nei centri di smistamento in Kansas e oltre. I cuochi afroamericani, inoltre, preparavano e cucinavano la carne bovina, contribuendo a gettare le basi della cucina americana. Per tutta la costa medio-atlantica, verso la fine del XVIII secolo, i cuochi delle piantagioni avevano adattato le ricette provenienti dall’Inghilterra al gusto delle élite locali. Il libro di cucina “The Virginia house-wife”, del 1824, conteneva non meno di 18 ricette a base di carne bovina, che i cuochi afroamericani erano esperti nel preparare. Oggi, da The Grey a Savannah, Georgia, la chef Mashama Bailey condensa questa memoria stratificata nei suoi ossibuchi glassati, insaporiti da burro d’arachidi e caffè. – Leni Sorensen è una studiosa e storica della cucina; vive a Crozet, in Virginia
Ossibuchi glassati con caffè e arachidi
ricetta di Mashama Bailey, proprietaria di The Grey a Savannah
COLLARDS
Il gigante verde
Per contrassegnare il cambio di turno tra il servizio del pranzo e della cena da Benne on Eagle ad Asheville, in North Carolina, la chef Ashleigh Shanti guida la sua brigata in una metodica e rilassante sessione di preparazione degli ingredienti. Alcune volte sceglie, ad esempio, la polpa di granchio. Altre volte, invece, si sgranano i piselli. Ma più spesso si puliscono i collards. «Lo facciamo tutti insieme», racconta lei di questo momento in cui lo staff si rilassa con il lavoro manuale, per prepararsi al turno serale. Shanti attribuisce grande valore ai gesti che considera ripetitivi e fondamentali al tempo stesso: «Mi riportano con la mente a mia zia e mia nonna, che facevano spesso insieme la stessa cosa». Con i collards non è solo questione di come li stufi, li salti in padella o li condisci. La quintessenza del piatto si esprime durante la sua stessa preparazione. Da Benne, il ristorante aperto poco più di un anno fa e rinomato per il suo approccio rispettoso e al contempo creativo alla cucina afroamericana degli Appalachi, i collards giocano sempre un ruolo di primo piano. Sono, per esempio, nell’insalata di collards e finocchio con plantano fritto, un piatto crudo che la chef afferma essere troppo spesso sottovalutato. Di solito vengono stufati e serviti nel loro potlikker (letteralmente: pot liquor, ovvero l’acqua di cottura). Shanti invece essicca le foglie appendendole come panni a una corda da bucato, come faceva sua nonna con aglio e fagioli. In seguito, li reidrata nel latticello e li cuoce: chiama questo contorno, appunto, Buttermilk Britches (panni al latticello, ndr). Un altro uso di queste foglie croccanti prevede che vengano ridotte in polvere come ingrediente del condimento di casa del suo ristorante, insieme a semi di sesamo, polvere di funghi, pepe, sale Maldon e zucchero di canna. L’influenza della cultura afroamericana è stata spesso esclusa dalla descrizione di questa zona, ma la sua presenza è concreta da secoli. Su un muro della sala da pranzo campeggiano i ritratti di quattro donne afroamericane. Si tratta di Hanan Shabazz, Mary Jo Johnson, Earlene McQueen e Mary Frances Hutchinson, tutte ristoratrici dei decenni scorsi che hanno operato nello storico quartiere nero The Block, dove oggi sorge anche Benne on Eagle. «I collards sono comparsi nei loro menù presto o tardi», racconta Shanti delle donne i cui volti lei può vedere anche dall’interno della sua cucina. «I collards sono un ingrediente che, nella nostra comunità, è sempre stato amato. Ieri come oggi». –
Osayi Endolyn è una food writer, vincitrice di un James Beard Award; vive a Gainesville, in Florida.
Insalata di collards e finocchio con plantano fritto
ricetta di Ashleigh Shanti, chef di Benne on Eagle ad Asheville
ARACHIDI
La lunga strada di casa
La storia dell’arachis hypogaea, l’arachide, originariamente domesticata in America del Sud, si è estesa al continente africano quasi immediatamente dopo la sua introduzione in Africa centrale e occidentale nel ’500, all’inizio della tratta transatlantica degli schiavi. L’arachide era molto simile alla noce africana bamana, una pianta commestibile che produceva legumi protetti da un guscio che crescevano sottoterra. Più produttiva e adattabile, utilizzata tanto in sughi salati quanto nei dolci, l’arachide si diffuse velocemente divenendo un alimento molto comune per poi, successivamente, attraversare nuovamente l’Atlantico e arrivare in America del Nord. “Goobers” o “gooba peas”, o “pindar”: tutti i nomi comuni delle arachidi nel Sud degli Stati Uniti avevano una radice angolana. Molti schiavi africani le coltivavano nei loro orticelli. Col passare del tempo le arachidi diventarono sempre più diffuse; tra il 1830 e il 1840 erano sorte piantagioni che le esportavano nelle città del Nord e durante la Guerra Civile i soldati cantavano: «Goodness, how delicious, eating goober peas (Cielo, le arachidi che bontà)». Arachidi bollite o tostate, caramelle alle arachidi, zuppe di arachidi e molte altre squisitezze si aggiunsero alle già numerose confetture, torte, crostate e gusti di gelato aromatizzati con le arachidi. E benché non sia stato, come molti credono, l’inventore della ricetta originale del burro d’arachidi, nessuno ha contribuito alla loro diffusione, attraverso più di 300 diversi modi di utilizzarle, del dottor George Washington Carver. – Michael W. Twitty scrive libri di cucina ed è uno storico e narratore culinario.
Zucca al forno con pesto di bietole e arachidi
ricetta di Bryant Terry, chef e autore del libro di cucina “Vegetable kingdom”
PATATE DOLCI
Radici profonde
«Non aspettatevi capre né denaro, perché le mie yam sono secche e le mie stalle vuote», scriveva Kukogho Iruesiri Samson, un poeta nigeriano. Le yam, o igname, sono ritenute essere state l’alimento più comune degli africani imprigionati a bordo delle navi della tratta atlantica degli schiavi; secondo alcune stime 500 schiavi, durante il viaggio, consumavano circa 100mila yam, talvolta come unica fonte di sostentamento. Contrariamente alla convinzione di alcuni, le patate dolci del Nuovo Mondo non sono le yam, che sono diffuse in Africa Occidentale, Caraibi, in tutta l’America Latina e in parte dell’Asia, e che sono un ortaggio completamente differente. Le patate dolci sono generalmente lunghe e affusolate, con la polpa arancione e il gusto piuttosto dolce, mentre le yam hanno la polpa bianca e sono più grandi e cilindriche. Le patate dolci sono più cremose, le yam più farinose e ricche di amido. Entrambe, però, possono essere bollite, schiacciate, fritte o cotte alla brace. Le yam vengono utilizzate durante le cerimonie in Africa Occidentale e Brasile, sono citate nelle canzoni e nella letteratura di questi paesi. Okonkwo, il protagonista del dramma di Chinua Achebe “Things fall apart”, ha una sincera passione per la coltivazione delle yam, ritenendole la più nobile delle verdure, in grado di rafforzare la sua virilità e capacità di provvedere al suo popolo. Nel Nuovo Mondo, gli africani ridotti in schiavitù trovarono la patata dolce, con la quale sostituirono l’igname. “Invisible man” di Ralph Ellison descrive un venditore di patate dolci che le cuoce al vapore per venderne il nettare zuccherino. Mentre la patata dolce prende il posto della yam — cibo per riti sacri— incarna anche la creativa capacità di adattamento degli emigrati, un transfer culinario che lo chef di Houston Jonny Rhodes fa suo neglignocchi di patate dolci al ristorante Indigo. – L’accademico Scott Alves Barton è chef e istruttore culinario.
Gnocchi di patate dolci
ricetta di Jonny Rhodes, chef e proprietario del ristorante Indigo di Houston
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