Francesca Barberini avvia insieme a Carlo Passera – curatore con Claudia Orlandi nella nuova Guida alle Pizzerie & Cocktail Bar d’autore – la giornata di lavori nella sala Identità di Pizza che, arrivata alla dodicesima edizione, racconta “la pizza che sa esprimere personalità”, protagonista di una grande evoluzione che spesso e volentieri si basa proprio sulla disobbedienza alle regoli canoniche della lievitazione, e non solo. E pochi esempi in ambito gastronomico sono altrettanto lampanti della portata in termini di evoluzione che possono avere l’uscire dal solco – pur fondamentale – della tradizione, e la libertà di pensiero (la stessa che ha portato Latteria Sorrentina, sponsor principale della giornata, a presentare proprio in questa occasione il nuovo fiordilatte in panna, che sulla pizza esula tanto dall’ortodossia purista del fiordilatte “assoluto” quanto dell’alternativa “gourmet” della mozzarella di bufala).
Sono storie di disobbedienza, azzardi, sfide e colpi di testa – ma anche di incontri felici e scommesse vinte – quelle che si alternano sul palco. Per esempio, quella di Irina Steccanella: cuoca emiliana partita dalla tradizione regionale ma con aspirazioni e orizzonti più ampi, nel 2014 va a cena alla Francescana e lascia allo staff una lettera per Massimo Bottura, tanto per non lasciare nulla di intentato. E invece lui la chiama il giorno seguente, e qualche mese dopo inizia la doppia vita tra il suo locale di Bologna e via Stella. Difficile tornare alla routine precedente – «mi sembrava di essere passata direttamente dalle elementari all’università» – così decide di rilanciare con un mese di “specializzazione” al Reale, dall’amico Niko Romito. Nel 2019 apre la sua “trattoria evoluta” a Savigno con grande successo ma pochi mesi dopo arriva la doppia mazzata del Covid: non solo le chiusure ma anche una forma aggressiva del virus che le fa perdere in via definitiva l’80% di olfatto, e con esso la gioia e le emozioni della cucina. La rinascita, professionale e personale, è stata nella pizza, che propone a cena: prima con un pizzaiolo poi, per necessità, cimentandosi in prima persona con impasti, condimenti e cotture – al forno a legna installato al centro della sala del locale – anche grazie all’aiuto e all’incoraggiamento di amici vecchi e nuovi, come il ferrarese Filippo Venturi (pizzaiolo,o meglio chef lievitista del Me) e Franco Pepe. Lei però ha voluto trovare una sua via, riconoscibile e identitaria anche se non ultra-elaborata, con quella che chiama “la pizza dell’Appennino”: impasto soffice (a base di farina bianca e debole, idratazione e tempi di lievitazione nella media), e condimenti territoriali, classici o “di cucina”, a cominciare dal suo ragù – «quello che ho cucinato più di ogni altra cosa nella mia vita» – alleggerito (eliminando burro e latte) e velocizzato, che completa la Scarpetta.
Alla Cascina dei Sapori di Rezzato – e poi anche nel centro della vicina Brescia, con il format Inedito – il pizzaiolo di origini campane Antonio Pappalardo ha già da tempo rotto gli schemi della “grande pizzeria” di stampo classico riducendo i coperti, concedendosi spazio e tempo per un servizio più curato e per fare maggior ricerca sulla materia prima e sugli impasti. Il risultato sono pizze buonissime, intimamente “local” e colte, come quelle che nel corso dei dodici mesi di Bergamo e Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023 ha dedicato a luoghi e simboli della città: la prima è stata la Vittoria Alata (ne trovate la ricetta sul sito), pizza tonda con fiordilatte, puntarelle, coregone del lago di Iseo e burro alle sarde di Montisola che rimanda alla statua bronzea del I secolo d.C. conservata presso il Capitolium di Brescia.
“Disobbedisce” a tante regole (e cliché) della pizza Confine, il progetto milanese di Francesco Capece e Mario Ventura. È il primo – premiato come Best Pizza Chef Under 35 ai Food&Wine Italia Awards – a raccontare sul palco di Identità di Pizza un progetto che punta a rivoluzionare non tanto la pizza in sé (le sue, da dieci anni a questa parte, scelgono farina di tipo 1 contro ogni consuetudine della pizza partenopea, con un lavoro sempre più affinato in cui tecniche, tecnologia, pensiero e processo creativo procedono all’unisono verso l’obiettivo di una pizza moderna e “verace” insieme) ma l’esperienza in pizzeria e il modo in cui le persone vi si approcciano, lavorando a braccetto con la cucina e con la sala (e cantina). Perciò da Confine le pizze sono servite a spicchi singoli, lavorando su diverse consistenze, sfumature di sapore, pesi alleggeriti: per esempi nella buonissima Umaminara, cotta al padellino e condita – su una base di polpa di San Marzano affumicato al legno di faggio che esalta il gusto del pomodoro – con le tante nuance umami della crema di datterino siciliano disidratato in forno, della pasta e colatura di alici, della polvere di olive e dell’aglio nero ossidato, affiancate dalla freschezza del gel di basilico, dalla dolcezza gentile della crema di aglio e dalla sapidità aromatica di origano e capperi di Salina. E lancia al pubblico e alla stampa la sfida di trovare una definizione per Confine, spazio che invece rifugge da categorizzazioni e delimitazioni tagliate con l’accetta.
Il panificatore Davide Longoni potrebbe sembrare un esempio da manuale di “disobbedienza” e lo conferma la sua storia: figlio di panettieri aveva deciso razionalmente e in accordo con i genitori di allontanarsi da un settore professionale messo in crisi dalla GDO, poi però ci è tornato e si è messo a sfornare il contrario di quello che venti/trent’anni fa Milano chiedeva: pani grandi, acidi, scuri, con la crosta. Eppure per raccontare (parte de)i progetti del suo panificio e laboratorio ha voluto con se sul palco un giovane collaboratore, Davide Orlando, “responsabile” del ritorno – disobbediente anche a se stesso – della michetta milanese nel laboratorio che oggi è anche e soprattutto una fucina di idee e talenti da far crescere, e di cui Longoni si dichiara anche un po’ padre, spingendoli a rischiare e sbagliare per crescere. Non è però una michetta qualsiasi, ma quella “delle origini” o meglio quella che Longoni stesso – non avendola mai assaggiata – può immaginare fosse la versione più autentica: non ipertrofica, friabile e ultra soffiata come quelle moderne ma più consistente e masticabile, realizzata con farina 0 e lievito di birra, prodotto che ha rivalutato e che è comunque naturale al 100% per quanto selezionato. Non la si assaggia in sala, però, perché la “degustazione” che portano è invece quella, affascinante, dei diversi lieviti e starter usati per i prodotti dolci e salati: dalla “sponge” con farina integrale e segale usata per la pizza in teglia alla biga della michetta, dal licoli (pasta madre liquida) alla madre solida usata per i panettoni, ciascuno dona al prodotto finale consistenza, sapore, personalità: «Non è così diffuso il concetto di vedere il pane come un fermentato, ma è quello che è. E nel morso, la fermentazione viene tutta fuori». E l’abbinamento con lo Champagne Billecart-Salmon – anzi, con le diverse etichette che accompagnano tutta la giornata, illustrate da Gil Grigliatti di Velier e da un Antoine Roland-Billecart dapprima scettico e poi sempre più convinto dell’abbinamento tra la pizza e le nobili bolle francesi – risulta forse organoletticamente più arduo, ma concettualmente ancor più interessante.
Si prosegue con la verve di due giovani pizzaioli partenopei, rappresentanti della “nouvelle vague” della pizza napoletana contemporanea – quella super scioglievole e con i cornicioni gonfi, pronta ad accogliere anche condimenti fantasiosi oltre che i grandi classici – che si sono dimostrati anche validi imprenditori, pure loro rompendo più di un tabù e con qualche colpo di testa: Vincenzo Capuano, dopo aver lavorato a lungo con la catena RossoPomodoro in giro per il mondo sfidandone spesso (con successo) le pur necessarie regole, conta oggi 23 pizzerie con il suo nome in Italia e in Europa, una in procinto di aprire a Bari e progetti anche oltre oceano. Con Napoli sempre nel cuore, si divide tra il ruolo di pizzaiolo, imprenditore e content creator: seguitissimo sui social, ha un team da hoc e sforna almeno tre video al giorno: il suo segno distintivo, oltre alle pizze, sono le forbici dorate che manda anche in tavola per tagliarle senza rovinarne l’ariosa struttura ottenuta con uso della biga al 100%, altissime idratazioni e uso intelligente della tecnologia, contravvenendo (o meglio, attualizzando e codificando) le regole della tradizione e garantendo quella che chiama “Capuano experience”. E se non si fa remore a usare sulla pizza il fiordilatte in panna – nella rivisitazione della Mimosa, che al posto di panna, prosciutto e mais vede appunto il fiordilatte e la panna, il crumble di prosciutto crudo e il giallo d’uovo – racconta efficacemente la sua disobbedienza più grande: «Vengo da Scampia, un quartiere difficile dove ti insegnano a non sognare. Io invece sono riuscito a realizzare i miei sogni».
Peppe Cutraro è nato ai Quartieri Spagnoli di Napoli, è cresciuto con la mamma – alla quale, da giovanissimo un po’ sregolato, promise che entro i suoi 35 anni lei non avrebbe dovuto più lavorare, e così è stato – e ha capito molto presto che la sua strada sarebbe stata la pizza ma ha girato parecchio (New York, Malta, Losanna) prima di trovare il luogo dove fermarsi: Parigi, dove – dopo aver lavorato con il gruppo Big Mamma, e aver vinto un premio importante – nel 2020 apre il suo locale nel non centralissimo XX arrondissement, Peppe Paris. I parigini s’innamorano delle sue pizze contemporanee, molto diverse dalle Napoletane di stampo classico diffuse in città, la stampa lo osanna e i premi arrivano numerosi, tanto che nei prossimi mesi arriverà a contare ben sei indirizzi nella capitale francese e uno a Bordeaux. Anche per lui, biga, cornicioni alti e condimenti per nulla low profile: dalla Campione del Mondo (pomodorini gialli, prosciutto crudo, provolone, mozzarella di bufala, mandorle tostate e confettura di fichi) a quella ideata per il congresso (ma che probabilmente entrerà in menu) con tartare di gamberi, fiordilatte, fiordilatte in panna, aneto e arancia in insalata.
Dopo tanto brio la conclusione spetta a Ciro Salvo, alla sua terza partecipazione al congresso, capace come pochi a far coesistere nelle sue buonissime pizze il rispetto della tradizione napoletana e la portata innovativa di studio e ricerca, con maturazioni calibratissime e impasti leggeri e identitari, ingredienti di qualità e attenzione alle sfumature di sapore e consistenza, dagli ortaggi – sempre e solo di stagione – ai diversi oli extravergine d’oliva. Sempre misurato e concentrato, racconta: «Per mia indole sono poco incline alla disobbedienza, per me è importante il rispetto delle regole. Serietà, esperienza, costanza e radici solide sono alla base del successo». Eppure la sua pur limitata disobbedienza – iniziata fin da giovanissimo, quando affiancando il padre in pizzeria chiedeva il perché di gesti e abitudini tramandate e non accettava la litania del “perché si è sempre fatto così” come risposta – lo ha portato a diventare un punto di riferimento per l’evoluzione ragionata e solidissima della tradizione, ripensandola e reinterpretandola in chiave diversa, contemporanea, adatta a nuovi gusti e nuove esigenze. E ad avere oggi tre locali con l’insegna 50 Kalò (anzi quattro, c’è anche quello napoletano dedicato ai panini) a due passi da Mergellina, a Roma e a Londra. Il primo, quello napoletano, ha segnato anche tra i primissimi in città la via per un’idea moderna di pizzeria, e oggi continua ad essere pienissimo grazie alle pizze che vanno dalle magistrali esecuzioni dei classici – «Per me un bravo pizzaiolo deve saper fare Margherita, Marinana e ripieno fritto: sono le basi della pizza napoletana e sono perfette così come sono» – alle sue creazioni originali: così al pubblico del congresso regala assaggi della sua Pizza e Patate (che porta sull’impasto un grande classico della cucina partenopea, naturalmente senza pasta), della Pizza e Cavoli (con cavoli bianchi cotti in acqua e latte, frullati e messi sulla pizza insieme alla mozzarella e a cavoli di diversi colori) e dell’ormai iconica e profumatissima 50 Kalò, che rivede la Marinara con pomodori torpedini, aglio dell’Ufita, olive nere caiazzane, capperi di Salina, olio extravergine della Dop Irpinia e scarola stufata.