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Identità di Pizza: più tempo, più umanità

La giornata dedicata alla lievitazione vede sfilare assaggi, pizzaioli e confronti con un filo conduttore: valorizzare il fattore umano.

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È uno degli appuntamenti più attesi del congresso milanese da appassionati e golosi di pizza, perché gli assaggi non mancano mai così come le idee e gli stimoli portati sul palco da maestri riconosciuti e giovani talenti presentati sul palco dal garbo competente di Francesca Barberini. Così è stato anche quest’anno per la giornata di Identità di Pizza, che ha visto però necessariamente una maggiore attenzione alle riflessioni – quanto mai necessarie in un settore fino a pochi anni fa considerato il più umile del mondo gastronomico e basato spesso su numeri e ritmi elevati, da ripensare – sollecitate dalle restrizioni degli ultimi 18 mesi e dall’attuale situazione di difficoltà a trovare risorse professionali. A fare da contraltare, però, anche un cauto ottimismo dichiarato da più voci presagendo un futuro prossimo certo non facile ma più sereno del passato che ci stiamo lasciando alle spalle.

Ad esempio, Simone Padoan racconta dei progetti nati durante il lockdown – come il “delivery” delle sue pizze in tutta Italia con dei kit creati ad hoc – e dei cambiamenti in positivo nati dalla situazione di crisi, come la riduzione dei coperti che permette però a lui e il suo staff di lavorare con maggior serenità offrendo all’ospite un’esperienza ancor più appagante e aumentando il valore (percepito e concreto) della pizza de I Tigli. Anche se non ci sta alle accuse di sfruttamento verso il mondo della ristorazione tout court e invita a essere appunto ottimisti ma anche realistici con un paragone efficace: «Quando passammo dalla lira all’euro c’era chi ha continuato per anni a fare confronti e a dire “eh ma quando c’era la lira era diverso”… Ma è inutile. Le cose sono cambiate ma vanno affrontate, smettiamola di pensare a com’era prima». E propone una pizza “fuori carta” che è un omaggio al suo territorio e alle sue radici, alla memoria della colazione della domenica in famiglia: la base croccante fuori e morbida dentro del PanPolenta con mais bianco e giallo e doppia cottura al vapore e in forno accoglie il petto marinato, cotto nella birra e scaloppato di gallina grigia dei Monti Lessini (i cui scarti diventano una deliziosa bonbon a lato) con patè di cuori e fegato, ovario (la sacca in cui si formano le uova, cotta nel padellino con burro e salvia, simile a un tuorlo ma più grezzo e concentrato) e cavolo cappuccio fermentato, nella foto in apertura.

Mirko Petracci, pizzaiolo-patron de La Scaletta ad Ascoli Piceno – pizzeria creata dai genitori oltre 40 anni fa e dal 2013 guidata da lui e i suoi fratelli – racconta di aver iniziato già allora su quale sarebbe stato il futuro della pizza scegliendo senza indugi la strada della qualità, che lo ha portato a proporre una pizza contemporanea, curata negli impasti (tra cui l’ottimo Gran’Aria, con farina Evolutiva e tre fermenti, che unisce la texture croccante della pizza alla pala e la morbidezza interna della tonda) e nei condimenti. Come nel caso della buonissima “È ascolana ma non è un’oliva” – messa a punto con l’amico cuoco Davide Camaioni del PostoNuovo di San Benedetto del Tronto, con cui durante la chiusura ha studiato anche le proposte de La Box Pizza spedita a casa con tutto l’occorrente per farcire l’impasto – che ripropone sul disco gli ingredienti della celebre Oliva ripiena all’ascolana: fonduta di Parmigiano, soffritto di tre carni con noce moscata e fondo bruno, polvere di nocciole e oliva, granella di oliva disidratata e le creme dei tre ingredienti del soffritto (carota, sedano e cipolla) a ricreare un assaggio intenso ma elegante. Petracci però porta anche altre riflessioni, dalla necessaria attenzione alla sostenibilità e alla provenienza dei prodotti alla revisione degli orari di lavoro per sé e per i suoi collaboratori per rendere più umano e disteso – e conciliabile con la famiglia, per uomini e donne – un lavoro impegnativo come quello nella ristorazione.

È la pizza fritta – in due versioni “parenti” ma diverse – alla base del confronto-incontro tra Cristian Marasco, del ristorante-pizzeria di famiglia La Grotta Azzurra di Merate, e Ciro Oliva di Concettina ai Tre Santi di Napoli, Rione Sanità. Razionale e preciso il primo, istintivo e immediato il secondo, sono uniti dalla comune passione per la pizza tramandata da generazioni. E se Marasco propone una pizza fritta “contemporanea” – ben croccante, ad alta idratazione e lievitazione naturale, passata in forno dopo la frittura per asciugarla e condita con pomodoro, capperi di Salina, emulsione di burrata, zucchine alla scapece, battuta di tonno ed emulsione di riccio di mare – frutto di innumerevoli prove tanto da essere stata battezzata J’ so’ pazz’e te «perché mi ha fatto uscire pazzo ma adesso sono pazzo di lei», Oliva punta sulla veracità deliziosa e scioglievole della classica montanara dalla frittura più “violenta” servita sulla carta oleata su una base di ragù (preparato a Milano dalla zia Brunella visto che lui rientrava da un evento a Londra e non avrebbe avuto il tempo necessario) e Parmigiano grattugiato.

Pier Daniele Seu – che manda in sala gli assaggi di fine estate dell’Assoluto di Peperoni e dell’Angurinara con pomodoro e anguria sulla base della pizza al padellino Wheely proposta come fuori carta da Seu Pizza Illuminati – torna sul tema delicato del lavoro e della gestione delle risorse umane, affiancato dalla moglie Valeria Zuppardo (è lei a sottolineare come anche la sala meriterebbe un’attenzione maggiore, nella ristorazione in genere e ancor più in pizzeria). E per farlo ricorda i suoi inizi, fatti di gavetta e dell’incontro con un “mentore” come Gabriele Bonci che gli ha dato fiducia e i suoi spazi; così, raccontano insieme, anche per non perdere e motivare i collaboratori più preziosi e a cui chiedono tanto in questi momenti complicati, hanno deciso di investire su di loro ascoltandoli, coinvolgendoli e anche affidando loro non solo l’esecuzione delle pizze ma anche l’ideazione di nuovi progetti, come è accaduto ad esempio con lo spin off estivo di TAC-Thin and Crunchy, che ha portato sulla spiaggia di Ostia la pizza tonda romana sottile e croccante. «Ho capito che il pizzaiolo, se vuole essere anche imprenditore, deve fare un passo indietro o meglio smettere di ritenersi indispensabile e dare spazio a delle figure chiave, simili agli executive chef che gestiscono i ristoranti che portano la firma di grandi chef. Qualcuno che possa rappresentarci, mantenendo il nostro stile anche grazie a una formazione ad hoc, ma che possa anche dire la sua».

A chiudere la giornata Francesco Martucci, che ha presentato il suo progetto “Around the world”: la box che – quando sarà ultimato il laboratorio necessario per la lavorazione e pastorizzazione degli ingredienti e la conservazione in ATM – consentirà di ordinare in tutta Europa la pizza de I Masanielli in tre cotture (al vapore, fritta, al forno con una serie di shock termici che permettono di ottenere una consistenza unica e ben riconoscibile) da rigenerare nel forno di casa seguendo le istruzioni tramite QRCode. E l’assaggio della sua Futuro di Marinara con la base preparata 12 giorni prima e completata in sala con crema di pomodoro arrosto olive caiazzane, capperi, pesto di aglio orsino e alici – non lascia spazio a dubbi.

La pizza era però stata protagonista anche la domenica in un talk della giornata di Identità di Sala dedicato appunto all’accoglienza in pizzeria e moderato da Federico De Cesare Viola. A confrontarsi sul tema Andrea Graziano di Fud, i fratelli Vittorio e Saverio Borgia di Bioesserì (soci di Graziano a Milano e Palermo) e Matteo Aloe, alla guida insieme al fratello Salvatore dei 15 indirizzi tra Italia e Londra di Berberè. Parola d’ordine attenzione: alla pizza che merita di essere valorizzata come cibo ed esperienza, agli ingredienti e ai territori, all’identità e a un servizio che riesca a intercettare e soddisfare le aspettative del cliente ma anche a chi lavora in pizzeria, puntando molto sulla formazione e sull’”attitudine” più che su presunte competenze che non sempre si rivelano idonee. “Pizze buonissime servite gentilmente” recita non a caso la mission di Berberè – che non è un franchising ma lavora affidando i singoli locali agli store manager, che in 11 casi su 15 sono donne – codificata già nel 2010, come ricorda Aloe: «Perché la pizza non è un prodotto che sta su uno scaffale si porta a casa, si va in pizzeria anche per trascorrere del tempo. Noi stiamo sempre attenti a non confondere il cliente, la pizzeria non è fine dining: deve essere divertente, veloce, accessibile». E far star bene.

 

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