Il cocktail da non ordinare mai

Pietro Collina, bar manager del The NoMad di New York, svela i segreti di una delle location della mixology più importanti al mondo, tra senso dell’ospitalità e competenza

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Come fa il bartender di un locale che accoglie centinaia di ospiti ogni sera a ricordarsi cosa beve ciascun cliente? Perché la nuova tendenza del bere miscelato sono i vini fortificati? Ma soprattutto: qual è il drink da non ordinare mai al bar? La persona giusta per rispondere a queste domande è Pietro Collina, bar manager del The NoMad di New York, da due anni primo in classifica nel Nord America e quarto a livello internazionale nella classifica The World’s 50 Best Bars. Lo incontriamo mentre è a Milano per Share Experience, il ciclo di masterclass per professionisti e aspiranti bartender organizzate dal collega Mattia Pastori, Miglior Bartender d’Italia di Diageo Reserve World Class 2016. 

Come possono convivere drink di qualità e grandi numeri? La scena della mixology in Italia è ancora giovane, e le dimensioni dei locali rimangono un po’ “boutique”. 

Pietro Collina: Da noi al NoMad comincia tutto con il training, e con l’assumere le persone giuste: non basta che amino fare i cocktail, devono amare l’idea stessa di “ospitalità”. Il nostro processo di training è lungo: ci vogliono almeno 8-9 mesi prima di diventare bartender. Ci concentriamo su due aspetti: da un lato, gli aspetti tecnici – come fare i cocktail nel modo più efficiente, come allestire e gestire la postazione -, dall’altro, come far sentire le persone a loro agio.

Come si fa a far stare bene gli ospiti in un bar stracolmo, dove magari c’è una lunga fila per ordinare un drink? 

Per prima cosa: salutando il cliente. La prima domanda non è mai: “Cosa vuoi da bere?” ma “Come stai? Posso offrirti un bicchiere d’acqua?” e nel frattempo consegniamo il menu: questo fa rilassare gli ospiti, dà la sensazione che qualcuno si sta occupando di loro – e allo stesso tempo fa guadagnare al bartender un po’ di tempo. 

Quella del NoMad e dell’Eleven Madison Park [il ristorante di Daniel Humm e Will Guidara che è arrivato al vertice della classifica World’s 50 Best nel 2017, N.d.R] è spesso citata come la migliore ospitalità al mondo. Cosa fate di così straordinario? 

Facciamo in modo di creare momenti speciali, che chiamiamo legends: cerchiamo moltissime informazioni sui nostri ospiti prima del loro arrivo, e altre ce le appuntiamo mentre sono da noi. Ogni volta che ordini un drink al Nomad, il bartender recupera la tua scheda, su cui c’è scritto il tuo nome, numero di telefono, cosa hai bevuto l’altra volta, cosa hai mangiato, se eri qui per un’occasione speciale… Se vieni 3 o 4 volte, e ogni volta ordini un Negroni come primo drink, alla volta successiva ti chiederemo: “Posso farti un Negroni?” Non è magia – è più collegare i puntini. Ed è molto lavoro extra per i bartender, che alla fine del loro turno hanno la responsabilità di inserire tutte le note. Inoltre, i giornali scrivono di tutto quello che succede all’Eleven Madison Park: non appena esce il nuovo menu degustazione, già il giorno successivo online si trova ogni portata descritta per filo e per segno. Così noi continuiamo a creare nuove esperienze di cui nessuno può avere letto prima, perché sono spontanee. Ad esempio, abbiamo trasformato vari spazi dell’hotel in piccoli bar a tema: a metà della cena, arriviamo al tavolo di un ospite e chiediamo: “Vuoi partire per un’avventura?” e lo portiamo in un bar dedicato al whisky giapponese, o in un bar che sembra una una casetta nel bosco. È “escapism”, una fuga dalla realtà: un momento prima, sei nel caos di New York, quello dopo in un posto molto silenzioso, segreto, da solo.

Potremmo dire che l’arte dell’ospitalità sta diventando una scienza? 

È indispensabile che diventi una scienza! Se un locale fa un buon lavoro di squadra, i clienti non cercano uno specifico bartender: al NoMad siamo in 26, e tutti abbiamo le stesse informazioni a disposizione, chiunque può farti sentire a tuo agio anche senza essere un volto conosciuto: “Buonasera Franco, so che normalmente c’è Jack che ti fa il Negroni, posso pensarci io stasera?” Per un bar così grande, è un risultato molto difficile da ottenere. 

Quali sono le nuove tendenze per quest’anno a New York?

La tendenza più forte sono i cocktail “low ABV”, a basso contenuto di alcol, dove le basi sono spesso vini fortificati come Sherry, Porto o Madeira. È più divertente, perché non ti ubriachi subito e ti godi meglio la serata, ma c’è anche una considerazione di costi: a New York gli affitti sono proibitivi e il costo del lavoro anche, i locali faticano. Se in un Margarita invece di 60 ml di Tequila ne metti 30 e altri 30 ml di Sherry, il costo del cocktail scende, anche per il cliente. 

Costi a parte, mi pare la stessa logica delle birre artigianali “session”: hanno meno alcol, perché sono pensate per passare qualche ora a bere.  

Esatto. A New York le case sono piccole, e le persone escono anche 4, 5 sere alla settimana – e non vogliono ubriacarsi, ma solo passare un paio d’ore al bar insieme agli amici, con un drink in mano, e stare bene. 

Negli ultimi anni abbiamo visto diversi distillati diventare molto popolari – prima c’è stato il gin, poi Tequila e Mezcal… Cosa ci aspetta in futuro? 

Eau-de-vie a base di frutta, apple jack [acquavite a base di sidro di mele, N.d.R], kirsch: un tempo erano considerati soprattutto digestivi da fine pasto, adesso sono molto popolari come basi. Buonissimi – anche se spesso molto costosi. E i nuovi spirits con infusioni a bassa temperatura, come quelli di Empirical spirits, la distilleria di Copenhagen aperta da Lars Williams and Mark Emil Hermansen, ex del Noma: combinano distillazione a bassa temperatura (utilizzando il sottovuoto invece del calore) a fermentazioni e ingredienti di alta qualità. 

Chiudiamo con una nota acida – qual è invece il drink da non ordinare mai? 

Ah! Un cocktail invecchiato in botte – magari un Negroni – è meraviglioso, se sai quello che stai facendo – e direi che sono al massimo il 5% dei bartender. Gli altri non ne hanno idea: magari l’hanno visto su una rivista e hanno pensato ah, questo è cool: così lasciano un cocktail dentro una botte per 5 o 6 mesi, la ricolmano di tanto in tanto, mentre le muffe proliferano.