Arcangelo Dandini ph. Blasetti

Il Lazio di Arcangelo Dandini

Il pollo di ruspo con i peperoni di Ferragosto

Testo estratto dal numero speciale Italianissimo: 20 (+1) racconti d’autore per 20 regioni

“Ma voi l’avete mai mangiato un pollo ruspante da queste parti?”, chiese mio padre Stefano a due contadini della provincia di Frosinone… Forse eravamo a Sora o Ceprano, non ricordo bene perché stiamo parlando di un agosto del 1972, a ridosso di Ferragosto, in pieno giorno, con un caldo afoso e opprimente che ci stordiva. Noi quattro: io, mio padre e i suoi due fratelli dentro un furgone tedesco comprato appositamente per gli acquisti del ristorante. Mio padre ci caricava ogni genere di cose, animali e persone senza distinzioni di ceto o rango nobiliare, dentro il suo diletto furgone. Lo amava a tal punto da avergli dato un nome: travaglio.

Ricordo che una volta stipò dentro travaglio due cardinali, alcuni polli e maialini vivi e ortaggi vari, tra le sommesse e contenute recriminazioni dei porporati che si aspettavano un mezzo di locomozione più decente per andare a pranzo, visto che il mezzo sopracitato aveva la funzione anche di trasporto clienti speciali. Da Frascati, zona stazione, fino a Rocca Priora, alla Doganella – il nome del ristorante di famiglia – e ritorno, pranzo o cena che fosse. Il giorno di Ferragosto, la Doganella scoppiava di persone: romani che per tradizione non rinunciavano alla gita “for de porta”, e si aspettavano di trovare il piatto del giorno, il pollo ruspante con i peperoni.

I clienti, per mio padre, contavano più della famiglia: “Rientrano nel gioco sottile degli affetti familiari, ti scelgono per quello che rappresenti e sai offrire loro, mica ti capitano a caso come nel gioco del Lotto”, diceva lui. “Io faccio il cuoco e cucino per loro, scegliendo i prodotti migliori. Loro mi amano per questo, e io amo loro perché apprezzano quello che faccio: è uno scambio di affetti e cibo”. E a Ferragosto accoglievamo fino a 1500 persone, si iniziava a cucinare dalle 4 del mattino. Ricordo enormi caldare per stufare i polli – una carne bianca che si mangiava solo d’estate, anche alla diavola, con la pelle croccante e le verdure ripassate di contorno – poi le pirofile di coccio con gli intingoli e i polli messi al centro della tavola, perché ognuno prendesse da sé il pezzo che preferiva. Qualcuno restava fino a sera.

Negli anni Settanta, per i romani, andare al ristorante era un modo per ritrovarsi. Specie in certi giorni di festa, come il 15 d’agosto, per l’appunto, o il giorno di San Giovanni, il 24 giugno, quando non potevano mancare le lumache. Rituali straordinari, di cui oggi resta solo il ricordo, perché sono tradizioni perdute. Ma in generale, la ristorazione aveva un ruolo sociale diverso: il cibo era taumaturgico, elemento centrale nell’intrattenere relazioni, per stare bene insieme. Le famiglie facevano amicizia da un tavolo all’altro. Roma all’epoca era piena di romani, migliaia di romani che uscivano a pranzo e cena, e lo dico con un po’ di malinconia. Avete presente Alberto Sordi e Anna Longhi nel film Vacanze Intelligenti, quando mangiano nel ristorante veneziano? L’atmosfera a tavola, un tempo, era quella. E intendo al ristorante, non in trattoria.

A Rocca Priora stavamo in mezzo a una campagna bellissima, chi arrivava a mezzogiorno si tratteneva fino a sera tardi… Dopo pranzo alcuni stendevano una coperta sul prato, nella macchia, per riposarsi un po’; i camerieri, alla fine del turno, giocavano a carte con i clienti. Per i bambini c’erano i pony, e un paio di palloni per giocare. Era un modo di vivere che 
girava intorno alla celebrazione della tavola conviviale. E pure il servizio assecondava questa attitudine: a Roma siamo pastasciuttari, ma la mantecatura è un gesto professionale importato dalla cucina francese, in tempi più recenti. In quegli anni lì, invece, anche al ristorante la pasta non veniva saltata in padella. Si partiva dal condimento sul fondo della pirofila, poi si versava la pasta, e sopra altro sugo con generosità. Poi si portava in tavola.

Tra i primi non potevano mancare in menu lasagne e cannelloni di carne, pasta col sugo finto (solo pomodori e odori!), ravioli di ricotta e spinaci. La carbonara, invece, mia nonna la preparava solo per lo staff del ristorante: non era un piatto che i clienti cercavano quando venivano da noi. Poi c’erano l’agnello e l’arrosto morto, serviti con patate al forno e verdure di campo. Il garofalato di manzo, e un sacco di cacciagione, come i tordi. Le interiora, oggi di gran moda, si vedevano poco. Che sogno sarebbe ricreare quell’atmosfera in un grande spazio in campagna, alle porte di Roma, com’è stata la Doganella!

Ma quel giorno di agosto, del 1972, com’è finita la nostra missione nelle campagne di Frosinone? Mio padre era in cerca di polli ruspanti da acquistare, in vista del pranzo di Ferragosto, in grande quantità, circa 200, meglio ancora 250. Impresa non facile. Un contadino di nome Emo ci avrebbe aiutato: il viaggio durò fino a tarda sera, perché Emo ci accompagnò in mezza provincia per bussare alle porte di tutti i contadini che conosceva. A fine giornata, contavamo 263 polli ruspanti che – vivi e starnazzanti – erano stati caricati sul furgone insieme a me, mio padre e ai miei zii. Ricordo ancora il viaggio di ritorno verso Rocca Priora: per il chiasso che facevano i pennuti ci dovemmo fermare più volte. Solo all’alba, rientrammo a casa, sfiniti ma soddisfatti. Quel Ferragosto mettemmo a sedere 1520 persone (mia madre tiene custodito come una reliquia il libro di prenotazioni del 15 agosto ’72, una data memorabile: l’elenco occupa 20 pagine). Due giorni dopo, Emo venne a farci visita con tutta la famiglia, ospiti di onore per mangiare il “pollo di ruspo con i peperoni” secondo la ricetta segreta di nonna Velia, la mamma di mio padre Stefano e dei miei zii Giuseppe e Augusto, che insieme a mia mamma Anna formava l’ossatura portante della cucina della Doganella. Prosit.

Maggiori informazioni

Arcangelo Dandini, romano dei Castelli, è cuoco e ristoratore di lunga esperienza, quarta generazione di una famiglia che ha tramandato la tradizione della cucina capitolina. Patron de L’Arcangelo, in città ha avviato anche il progetto Supplizio, friggitoria che indaga sulle origini della cultura gastronomica di Roma, valorizzando il cibo di strada.

Foto di Alberto Blasetti

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