Le finestre in cinemascope della sala esaltano il panorama urbano più bello del mondo. Quella sul lato destro inquadra in primissimo piano i due campanili di Trinità dei Monti, così vicini da poterli quasi toccare. Tutt’intorno le cupole e i tetti di Roma formano un mosaico che mi è familiare. Il rutilante set dell’Imàgo dell’Hassler potrebbe distrarre qualsiasi commensale, come so bene alla mia ennesima visita al sesto piano di questo storico hotel della famiglia Wirth, a pochi scalini di distanza da Piazza di Spagna. Ma lo chef Andrea Antonini – romano de Roma – ha finalmente la personalità e la maturità che servono per portare in tavola piatti altrettanto seducenti. Dagli esordi, nel 2019, in questo ristorante amatissimo dai turisti quanto dai locals in cerca di una serata vertiginosa in ogni senso, Antonini ha perso per strada alcune ingenuità e vizi di forma, menu dopo menu.
E così sono felice di sorprendermi, più e più volte, durante il tragitto del percorso degustazione Project (io ho provato l’undicesimo ma è già presente il tasting numero dodici, che affianca Classic, una selezione delle ultime stagioni), la summa di una visione sempre più ampia e ragionata che si esprime con sapori gagliardi e molto eleganti. Mica facile, ad esempio, nobilitare il cetriolo di mare con la freschezza di una salsa verde ovvero un pil pil (lo chef ha lavorato diversi anni in Spagna, da Quique Dacosta e al Celler de Can Roca) alla mentuccia. Così come cambiare lo spartito della pasta burro e Parmigiano (invecchiato 120 mesi) senza far rimpiangere l’originale: Antonini ci riesce con tecnica – i ditalini vengono cotti in un brodo di croste di formaggio – e il supplemento sapiente del polline e dell’albedo del cedro. E potrei menzionare ancora il Branzino in porchetta, in cui l’insaccato di mare viene rinfrescato dalla maionese al limone, il rosmarino e i fiori di finocchietto marinati in aceto, e il delizioso Manzo, albicocche e senape, combinazione dagli armoniosi contrasti. Ma già nuovi piatti saranno entrati in carta mentre leggete, perché il ragazzo scalpita di sana creatività.
Il pane (buonissimo) non è corollario ma protagonista e mi viene servito con acqua di mele fermentate, burro salato e “miele” di pane (grazie al processo di amilasi, che scinde gli amidi del pane avanzato, lo stesso diventa un miele denso dalla spiccata nota di caramello). Prima dei titoli di coda, non mi sottraggo al supremo tentatore, il carrello dei formaggi, che contribuisco ad alleggerire a suon di caprini, vaccini e ovini (bonus per i ristoranti che ancora mettono in scena con orgoglio le eccellenze casearie). Ecco dunque arrivare i dolci di Luca Villa (Best Pastry Chef Under 35 ai Food&Wine Italia Awards 2024), tra i più originali e raffinati che ho avuto modo di assaggiato ultimamente in un fine dining: se con Fiori e fiori il pastry chef gioca la carta della delicatezza, con Mandorla, anguria e olive taggiasche porta in tavola una stratificazione dolceamara complessa e tagliente.
Io sono tra quelli che pensano che il servizio valga il 51% di un’esperienza al ristorante e qui la sintonia tra cucina e sala è perfetta. Durante tutto il tragitto, Marco Amato mi ha accompagnato con la sua discrezione e simpatia, campione gentile di ospitalità e impeccabile direttore d’orchestra. Per gli abbinamenti al bicchiere mi fido della sensibilità di Alessio Bricoli, molto bravo a contrappuntare ogni mio piatto con scelte singolari al calice (dal Wachenheim Riesling “R” Domaines Schlumberger all’Adelaide Hills Chardonnay Morialta JC’s Own), pescate da una cantina che, per ampiezza e profondità di annate, è una delle migliori d’Italia.