Istanbul non dorme mai, c’è sempre traffico e rumore anche alle 8 del mattino, e non importa che andiate in direzione contraria al centro storico che si trova al di là del ponte di Galata, magari risalendo di qualche chilometro la costa europea verso Nord. Fermatevi quasi accanto alla fortezza Rumelihisarı di epoca ottomana e prendetevi del tempo per fare una passeggiata lungo il Bosforo prima di fare tappa al Nezih Kebap Yuvalama per adempiere uno dei comandamenti non scritti della tavola turca: la colazione. Questo è un appuntamento fondamentale per gli istanbulioti, un pasto da condividere, in cui non serve lavorare d’immaginazione, che si materializza in un rituale lento, scandito dall’abbondanza delle pietanze e dall’arte di impilare le scodelle di rame in uno stesso tavolo. «Le conversazioni più importanti, dai colloqui di lavoro alle dichiarazioni d’amore, avvengono davanti a simit (pane che ricorda i bretzel tedeschi, venduto in città come street food dagli ambulanti con carretto rosso al seguito), formaggi diversi, olive, miele, uova, pomodori e cetrioli», confida Burak Sidar, guida turistica del posto che parla un italiano perfetto. Il tè non manca mai e viene servito in bicchieri di vetro trasparenti dalla forma affusolata che ricorda quella del tulipano per agevolare l’impugnatura. «I turchi sono così abituati a pasteggiare a tè da riuscire a tenerlo ancora bollente tra le mani senza mai scottarsi».
Dagli anni 50 del secolo scorso il tè è divenuto la bevanda calda più consumata in Turchia, un primato che nel trentennio precedente venne incentivato anche da Mustafa Kemal Atatürk, da tutti considerato il padre della nazione, fondatore e primo presidente della Repubblica turca, il quale promosse lo sviluppo economico della coltivazione di tè nero, in particolare nella zona a Nord-Est del paese. Una pratica, quella di bere tè, talmente radicata nelle abitudini dei turchi che invece di dire “la colazione è pronta” molti usano “il tè è servito”. Le porcellane più caratteristiche le trovate al Çırağan Palace Kempinski, resort urbano da mille e una notte sulle rive occidentali del Bosforo, che ha ispirato il disegno del set di sottobicchieri raffigurante il pavone; e proprio questo animale simbolo di bellezza e vanità è una specie che si aggira persino nei sontuosi giardini dell’hotel, gli stessi che per molti anni sono stati il campo da calcio del club Beşiktaş, la squadra più antica del campionato turco. Adiacente a questo edificio moderno – inaugurato nel 1990 – si trova l’ex palazzo ottomano le cui mura esterne vennero gravemente danneggiate dall’incendio del 1910 che potrebbe essere stato provocato dalla “maledizione della melanzana”, evento rovinoso che ogni 50 anni si abbatteva puntualmente sulla città con i fumi dell’olio che infuocavano le tende. L’unica parte veramente autentica della struttura resta l’Historical Hamam, oggi accessibile al pubblico e convertito in un luogo alla moda che ospita eventi esclusivi (tra i più recenti una presentazione della collezione di gioielli di Tiffany & Co.). A Istanbul potete pure esprimere il desiderio di mangiare all’interno di un bagno turco – magari mentre passate con il battello sotto il Ponte sul Bosforo –, e state certi che si avvererà. Nascosto tra le vie del caotico quartiere di Cağaloğlu, c’è Lokanta 1741, nuovo ristorante di un hammam con 300 anni di storia. La parte più alla moda della cucina si trova al piano rialzato, allestito a mo’ di giardino urbano con vista sulle due cupole termali che separano l’area maschile da quella femminile, a circa tre minuti a piedi dalla Cisterna Basilica, la più grande cisterna sotterranea conservata in città (attualmente chiusa). Un indirizzo ideale per un pranzo veloce o un cocktail defaticante, con un menu degustazione che cita alcuni classici con brio, come le cozze servite nel proprio guscio e arricchite di riso allo zafferano o il moutabbel, salsa mediorientale a base di melanzane affumicate, stratificata sullo stesso ortaggio violaceo passato alla brace e ricoperta ancora da tahina, arachidi, melograno e una nostalgica spruzzata di prezzemolo. Dal marmo bianco delle saune alle pareti piastrellate di turchese del Pandeli, ristorante storico al primo piano del mercato delle spezie nel quartiere di Eminönü – dal quale è difficile uscire senza aver contrattato su sumac, pistacchio turco e zafferano! –, si resta fedeli alla tradizione, oggi come 120 anni fa. Tra local che si mescolano ai turisti, agli stessi tavoli che hanno ospitato Atatürk oppure Audrey Hepburn, vengono serviti come una volta i dolma, alias foglie di vite ripiene, ma anche una crema di melanzane grigliate al carbone, vegetale che ricorre spesso nelle ricette, e tra i nomi più curiosi il kazandibi, letteralmente “in fondo alla padella”. Si tratta di un dessert dalla consistenza molle che contiene filamenti di petto di pollo caramellato, un dolce al cucchiaio che al gusto italiano ricorda il biancomangiare, budino che si fa risalire al Medioevo e di cui ci sono tracce anche nell’Artusi.
[ngg src=”galleries” ids=”31″ display=”basic_thumbnail”]
Turk e Neolokal: il futuro della cucina turca è (già) scritto nella tradizione
A Istanbul non è ancora arrivata la Guida Michelin, o almeno così sarà fino al prossimo 11 ottobre, quando verranno presentate le prime stelle della metropoli. Eppure, l’esperienza che si prova in alcuni ristoranti già da qualche tempo è notevole, con una nouvelle vague di chef che è rimasta fedele alla propria vibrante eredità culinaria. Lo dimostra il rientro in patria di Fatih Tutak, dopo un grand tour oltre confine durato diversi anni che ha toccato più tappe, dal Noma a Copenaghen al Ryugin a Tokyo. Ma per convincerlo a tornare a Istanbul sono servite le lacrime di un commensale turco che in Giappone si commosse davanti a un piatto dedicato alla Turchia. Tra il chiodo fisso per le fermentazioni e la pratica seriale di frollatura sia del pesce che della carne, al Turk lo chef ha esplorato e ripassato alcuni fondamentali del repertorio gastronomico locale presentandosi come il nuovo profeta della cucina mediterranea. Tra questi ci sono il tarhana e il dolma, rispettivamente una zuppa disidratata, perlopiù realizzata con verdure, yogurt, lievito e spezie, mentre l’altro rimanda alle foglie di vite che nella sua interpretazione non rivestono più la preparazione ma sono all’interno di un guscio edibile che ricorda la cozza (ricomposta con tamarindo, nero di seppia e uvetta), riempita poi di riso e maionese alla birra. Se qui l’ingresso al piano terra di una moderna architettura di 30 piani, nel modaiolo quartiere di Bomonti, suscita una sensazione di estraniamento dal mondo esterno, seducendo per la commistione di artigianato turco e le citazioni di design nordeuropee, la vista dalle vetrate di Neolokal, altro protagonista della scena gastronomica contemporanea turca, fa trattenere il fiato davanti al Corno d’Oro. Nel quartiere direzionale di Galata, al primo piano dell’ex banca imperiale ottomana, oggi museo e centro culturale Salt Galata, è collocato il ristorante sperimentale dello chef Maksut Aşkar, che con un colpo d’occhio incornicia antiche basiliche e moschee. Il libricino che scandisce l’uscita dei piatti preannuncia “un piccolo viaggio gastronomico nelle profondità della cultura culinaria anatolica”. Prima del benvenuto arriva del burro proveniente dal distretto di Çamlıhemşin, servito con dei funghi raccolti nella regione del Mar Nero e del prezzemolo infuso all’olio d’oliva da spalmare sul pane impastato con lievito madre che è stato chiamato come fosse una persona: “Neylan Ekşi”. Çilbir sta invece per uova alla turca, nella versione casalinga in camicia con una schiuma di yogurt all’aglio e burro piccante. Ritorna il dolma, foglia di vite in salamoia che avvolge la palamita. Si consiglia di dare un’occhiata anche alla carta del vino, una dichiarazione d’amore per le uve autoctone descritte con note di degustazione e abbinamento consigliato. Chi vuole fare bella figura può chiedere invece il raki, liquore nazionale simile all’ouzo greco e al pastis francese, da diluire in acqua e ghiaccio per accompagnare un intero pasto.
[ngg src=”galleries” ids=”30″ display=”basic_thumbnail”]
Od Urla: la rivoluzione gastronomica dell’Egeo
Molti turchi per godersi la brezza marina prenotano le vacanze a Izmir, città bagnata dalle acque del mar Egeo che diede i natali a Omero. A 35 minuti di auto, diretti verso l’entroterra della regione dell’Egeo, c’è Urla, cittadina chiamata la “Toscana della Turchia” perché immersa tra ulivi secolari, vigneti e terreni agricoli. Seguendo una strada sterrata si arriva così a Od Urla, ristorante ambizioso nella proposta culinaria fondato sulla filiera farm-to-table che, già nella traduzione armena dell’insegna, si caratterizza con l’elemento del fuoco, tra cotture alla griglia e al forno a legna. Il locale si sviluppa attorno al lungo bancone che diventa il perimetro della cucina a vista di Osman Sezener, rientrato in Turchia dopo aver studiato presso l’International Culinary Center e l’Institute of Culinary Education di New York. Dalla mente dello chef germogliano in continuazione nuove idee che vengono sperimentate nel reparto test kitchen. Proprio qui è nato il suo sarma (specialità turca che a differenza del dolma viene servita avvolta e non ripiena), presentato però scomposto: alla base del riso, poi una spuma di yogurt, crema di foglie di vite e olio di oliva. Come a ribadire che la tradizione sia soltanto un’idea o un ricordo: se non puoi mangiarla, almeno puoi evocarla.