L’abbiamo vista nella puntata della terza stagione di Chef’s Table, la popolare serie Netflix, coltivare ortaggi secondo i ritmi e gli spazi della natura, cuocere il riso e assaggiare a gran sorsate la salsa piccante in cui matura il suo kimchi nelle onggi (grandi giare di terracotta) nell’eremo di Chunjinam, nel tempio Seon (Zen) di Baekyangsa, all’interno del Naejangsan National Park in Sud Corea. Poi, a metà maggio, i pochi fortunati che hanno prenotato per tempo il proprio posto per partecipare alle lezioni di cucina o alla cerimonia del BaruGonyuang – il pasto rituale dei monaci buddisti coreani – l’hanno incontrata in carne e ossa a Roma e a Torino, in occasione della Korea Week e di altri appuntamenti promossi dall’ambasciata della Repubblica di Corea, dall’Istituto Culturale Coreano e dal Consolato Generale della Repubblica di Corea a Milano. Tra gli “eletti” di Roma c’eravamo anche noi, seduti a un tavolo apparecchiato con cucchiaio, bacchette e baru (la quattro ciotole di legno parte essenziale della cerimonia del BaruGongyang, da usare secondo un preciso codice e da ripulire a fine pasto senza lasciare nemmeno un residuo di cibo) per assaggiare le sue prelibatezze che hanno conquistato cuochi di tutto il mondo, da Renè Redzepi a Éric Ripert, chef di Le Berardin a New York. Ma, soprattutto, per capire come un cibo semplice, essenziale, vegano e privo di quelli che sono tratti distintivi della cucina coreana e in generale marcatori universali del sapore (vale a dire aglio, cipolla, erba cipollina, scalogno e porro) possa rivestire un ruolo importante sulla strada che conduce all’Illuminazione. Perché, nonostante Jeong sia stata folgorata prima dalla passione per la cucina e poi da quella per gli insegnamenti del Budda – così racconta in Chef’s Table, ricordando di come abbia preparato da sola un pasto per la sua famiglia a soli sette anni, e di come poi abbia scelto la vita monastica dopo il dolore per la perdita prematura della madre – oggi la monaca prevale decisamente sulla cuoca, e ogni sua azione ha un fine spirituale più che gastronomico.
Preparare e condividere il cibo, infatti, fa parte della pratica buddista e il pasto non è un momento di svago ma un atto necessario per la salute – le preparazioni e gli alimenti utilizzati hanno spesso proprietà medicamentose e in generale hanno come scopo l’equilibrio e il benessere fisico e dello spirito – oltre che una forma di meditazione. Il che, naturalmente, esclude tanto ogni forma di ego nell’atto di cucinare quanto ogni accenno di golosità nel consumare il cibo, che deve essere improntato al rispetto. “Tutto ciò che mangiamo è il frutto del lavoro di qualcun altro o della natura che si “sacrifica” per noi”, ricorda Jeong illustrando le regole del BaruGongyang, oggi semplificate rispetto alle origini ma comunque complesse nel preciso ordine in cui disporre le ciotole per la zuppa, il riso e i diversi contorni (kimchi, radici di fiore di loto sottaceto, caco essiccato, radice di campanula con pinoli, l’erba selvatica Doelingeria scabra, e i funghi shiitake brasati citati anche in televisione), prelevare e mangiare il cibo in silenzio e poi pulire ogni cosa. “Il pasto rituale ci ricorda il valore di ogni essere vivente, piante incluse, e l’importanza dell’armonia che deve regnare tra uomo e natura. Nel mangiare non bisogna lasciarsi andare troppo al piacere del gusto: non si deve esagerare con le quantità e soprattutto non va sprecato nulla”. Così, nelle ciotole non deve restare nemmeno un chicco di riso, e anche il pezzetto di kimchi (il famoso cavolo fermentato alla base della dieta coreana, preparato dai monaci senza l’uso dei cinque ingredienti proibiti ma con abbondante peperoncino, zenzero e salsa di soia) che va tenuto da parte per tirare a lustro le ciotole con l’acqua di cottura del riso, alla fine va mangiato. Eppure, curiosità e creatività non sono state del tutto azzerate dalla pratica monastica, tanto che nel soggiorno italiano Jeong si è fatta conquistare dai banchi dei nostri mercato inserendo nel menu delle diverse giornate anche carciofi e olive oltre ai già programmati pomodori.
Grazie all’abilità culinaria della monaca e alla sua innata propensione a nutrire gli altri, l’approccio ascetico di matrice Seon – di cui si può far esperienza partecipando ai programmi del progetto Templestay.com, che propone visite e soggiorni nei templi buddisti coreani – si concretizza in piatti che all’essenzialità e all’assenza di voluttà affiancano un’incredibile intensità gustativa con sapori incredibilmente nitidi vigorosi e consistenze inattese. Così, il ginseng fresco fritto nell’olio di riso – la frittura è l’unico tipo di “grasso” previsto nella dieta buddista – è fragrante e mostra diverse sfumature di sapore procedendo dalla “testa” alla barba finale, la zuppa di funghi steccherini (provenienti dalla regione del Gangwon) è estremamente confortevole anche se servita tiepida, il kimchi è fieramente piccante, le croccanti e acidule radici di fiore di loto sono ammorbidite dalle frittelle di patate, i funghi shiitake brasati hanno una consistenza unica, a metà strada tra il gommoso e il sodo, che ne esalta il gusto umami. E le foglie dell’albero del paradiso (l’ailanto, pianta caratterizzata dalla notevole altezza e dalle proprietà curative molto apprezzate dalla medicina tradizionale cinese e orientale in genere) che accompagnano il porridge al sesamo nero e fagioli verdi – parte del più ricco menu della cena di gala al Grand Hotel Palace di Roma – hanno un che di quasi ipnotico, ed è quasi impossibile smettere di mangiarle per cercare di decifrarne ogni possibile sfumatura, concentrandosi su gusto, consistenza, acidità, balsamicità. Forse è (anche) questo che intende Jeong, quando parla del mangiare come una forma di meditazione.
Il BaruGongyang è il pasto rituale quotidiano dei monaci, improntato alla meditazione e al benessere fisico e spirituale. Quali sono i suoi consigli per applicare i suoi principi di base in un’alimentazione quotidiana al di fuori dell’ambito monastico?
Il cibo è una via per la felicità, un tramite per raggiungere la felicità del corpo e dello spirito. I miei consigli sono di non esagerare con le quantità, per non appesantirsi; di mangiare sorridendo, con animo allegro; e di mangiare la giusta dose di alimenti vegetali, che rendono il cibo leggero, morbido e confortevole.
Ma la cosa fondamentale è che ci sia armonia tra chi prepara il cibo e chi lo consuma.
La condivisione è alla base del consumo del cibo tanto nella visione occidentale che in quella orientale, e in quella cristiana come in quella Zen, ma in maniera molto diversa. Nel BaruGongyan si mangia tutti insieme, ma in silenzio e concentrandosi su se stessi e sull’esperienza individuale. Ci spiega meglio questo modo di intendere la condivisione del cibo?
Il concetto fondamentale, per il buddismo, è la connessione tra gli animi delle persone. Prima di tutto tra chi prepara e chi consuma il cibo: se manca questa, e il cibo non piace a chi lo mangia, non c’è armonia. Solo dopo viene quella tra chi mangia insieme, che è anche un modo per trasmettere felicità l’un altro. (ndr: nel BaruGongyan si mangia in silenzio ma, dopo aver bevuto il tè di fiori di loto che chiude la cerimonia, i monaci si confrontano sui temi della vita monastica).
In questo approccio meditativo al cibo, che ruolo ha il gusto? I piatti cucinati da lei sono comunque molto saporiti, e decisamente buoni.
Nella cucina del tempio, è importante bilanciare il gusto ed evitare di fare riferimento alla propria volontà, esagerando nell’uso d’ingredienti non necessari o snaturandoli. Il cibo che preparo deve rispondere a precise finalità spirituali e non deve essere solo frutto della creatività personale. Quello che conta è capire l’essenza degli ingredienti e preservarla il più possibile, per preparare un pasto equilibrato. Il processo di lavorazione e trasformazione degli ingredienti è una via verso l’Illuminazione.
Ma il confronto con chef famosi di tutto il mondo, prima e dopo la partecipazione a Chef’s Table, non incide sulla sua creatività?
Sì, ma in modo naturale. La creatività non deve essere un fine; è più che altro una predisposizione a creare qualcosa di nuovo che deve derivare da un animo “vuoto”: senza ego, senza esagerazioni.
Fotografie di Rowena Dumlao
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