Joško Gravner, l’uomo che ha detto tante volte «Ho sbagliato»

Lo chiamano il signore delle anfore di Oslavia. E disconosce la paternità degli orange wines

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Il Bianco Breg 2011 di Joško Gravner è appena uscito. Con il 2012 sarà l’ultima annata, perché le uve con cui è stato fatto non esistono più. I vigneti sono stati espiantati per lasciare posto al bosco. Basta a Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling Italico, Merlot e Cabernet Sauvignon. Le uve per il bianco saranno solo Ribolla, così come quelle per il rosso solo Pignolo. Le decisioni di Joško Gravner sono così, risolute, apparentemente senza sfumature. Di certo sottolineano coraggio. Dopo due giorni trascorsi con l'”uomo delle anfore” e sua figlia Mateja, la sensazione che ci si porta via è quella di aver conosciuto un uomo libero. La libertà ha tante sfumature però, soprattutto quando non è incoscienza. Gravner è uomo libero. Libero dai protocolli agricoli ed enologici, dalle mode, dall’eccesso di parole e dal machismo – condizione che travalica il genere – che non ammette mai uno sbaglio. Durante le chiacchiere, infatti, ha detto spesso “ho sbagliato”. Non erano né rimpianti né rimorsi, ma lo sguardo di un uomo di 67 anni che ha ripensato i suoi vini secondo coscienza. La ricerca dell’essenziale è questa cosa qui, avvicinarsi a ciò che più ci assomiglia. La casa/cantina dei Gravner è in località Lenzuolo Bianco a Oslavia, provincia di Gorizia. In questi territori i confini tra Italia e estero non sono tirati dritti, ma serpeggiano tra colline e vallate. In cima alla torre di Gonjace lo sguardo rimbalza tra Friuli e Slovenia. Ai piedi di questa struttura di ventitrè metri c’è una targa commemorativa che recita: «Ai figli del Collio e della Slavia Veneta, custodi fedeli della nostra lingua». I Gravner parlano tra loro in sloveno: per decidere cosa mangiare a pranzo, per dare le direttive agli operai in vigna, per scegliere le annate vecchie da assaggiare. Joško poi sarebbe Francesco all’anagrafe, perché fino agli anni ’80 del secolo scorso era vietato dare nomi stranieri ai figli. Nascere sui confini deve essere un po’ come vivere in punta di piedi. Difficile. 

Così, ad ovest della frontiera abbiamo il “Collio”, a est il “Brda”. Il senso è lo stesso, ovvero collina. Questo paesaggio, che prosegue identico da un lato all’altro, è stato tagliato in due dalla Cortina di ferro che ha lasciato dietro di sé moltissime storie di divisione, diffidenza ed incomunicabilità. Da qualche anno si parla di una candidatura comune a Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco. Dopo qualche tentativo a vuoto, pare che le delegazioni siano ripartite per arrivare a qualche risultato entro il 2020. Vedremo. Qui, intanto, la gente del posto gira l’angolo ed è in un altro Stato, e Joško stesso ha vigneti dall’una e dall’altra parte. I suoi “lavoro in corso” sono  otto ettari che sta sistemando da oltre dieci anni a Dedno, in Slovenia. I pendii sono stati lasciati intatti, anni e anni di sovescio hanno preparato il terreno – la ponca, una marna calcarea stratificata – e solo dal 2017 le viti sono state innestate. Il sistema di allevamento che via via va adottando è quello dell’alberello a ventaglio studiato dai potatori d’uva Marco Simonit e Paolo Sirch. Le prime produzioni arriveranno tra il 2024 e il 2025, il che vuol dire che per berle bisognerà attendere il 2032, sette anni – il tempo scelto da Joško per i suoi vini. L’altro vigneto “straniero” è quello di Hum che fa da sfondo alla vecchia casa di famiglia, usata all’occorrenza come foresteria. L’idea è quella di un giardino, con filari intervallati da alberi – olivi, cipressi, meli, ornielli, sorbi – e piccoli specchi d’acqua che attirano insetti e animali utili alla messa in equilibrio dell’ecosistema. Anche alle travi esterne della cascina del ‘700 sono stati affissi nidi artificiali per aumentare la presenza degli uccelli. La prima acquisizione, invece, è il vigneto a Runk (Oslavia): il primo pezzo di terra dei Gravner, acquistato nel 1901. La famiglia gioca un ruolo rivoluzionario in questa storia. Nonno e padre di Joško fanno vini “all’antica”, senza controllo delle temperature e con macerazione sulle bucce. 

Il giovane vuole invece essere moderno e per questo servono serbatoi di acciaio termocondizionati, barrique, additivi in vigna. Qualunque cosa aiuti a produrre vini buoni e cospicui in volume. Siamo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e le cose vanno bene, il vino di Gravner piace e si vende. Un periodo che tra l’altro coincide con il successo dei vitigni internazionali e con l’uso generoso del legno. Il Gravner prima di Gravner poteva rimanere dov’era. Il sorriso del padre dinanzi a tutto questo strafare però insinua qualche dubbio. Un viaggio in California mette Joško di fronte all’idea di un vino massificato e tecnico che lui rifiuta. Un altro viaggio, in Georgia, mette Joško di fronte all’origine della vinificazione. Il 1996 una grandinata epocale distrugge i vigneti. C’è da ripartire, ma da dove? La risposta è dall’anfora, il contenitore di terracotta usato da oltre 5000 anni in Caucaso, dalle forme curvilinee che accolgono il vino e non lo stravolgono, come una culla ancestrale che riporta all’origine il tutto: pratiche biodinamiche in campo, biodiversità nel vigneto con ripopolamento di microfauna e botaniche, uso esclusivo dello zolfo, nessuna diraspatrice, alcun controllo delle temperature, macerazioni lunghe, solo due vitigni autoctoni, affinamento lento – infinito, dal punto di vista commerciale. Insomma, rigore e laboriosità, ancor prima che creatività. Parlando del suo primo vino in anfora – 2001 – Joško confessa di aver pianto a causa dei primi riscontri della critica. In un numero del mensile Gambero Rosso dedicato al nuovo millennio, Gravner viene dato per spacciato (poi quell’annata prenderà i Tre Bicchieri). I suoi nuovi vini sono incomprensibili, a partire dal colore che appare “aranciato”. Quelli che oggi chiamiamo orange wines (e in Italia, in modo grezzo, “maceratoni”), sono ben lontani dal divenire di moda. 

Gli appartenenti alla corrente “pro-macerazione” italiana hanno provato a fare di Gravner la propria guida, ma si sono scontrati con la reticenza del produttore nel riconoscersi come capobanda. A quel punto è scattato il ripudio: i primi accusano il vignaiolo di Oslavia di alto tradimento – Joško ha fatto marcia indietro sul non uso della solforosa, che invece ritiene necessaria –, il secondo stenta a riconoscere dei discepoli alla sua altezza, a partire dal fatto che odia definire il suo vino bianco un orange, «Piuttosto è un vino ambrato», sottolinea lui. L’anforaia, con quarantasei anfore interrate, è un luogo alquanto mistico. Sono le Kvevri – da 1300 a 2400 litri di capacità – ricoperte di calce e intelaiate con una rete metallica, per essere calate nel terreno. A vederle dall’alto sembrano bocche aperte che respirano, e la temperatura del sottosuolo è la sola che conti nella fermentazione (per Gravner non ha senso usare anfore non interrate). La macerazione è più lunga nei bianchi che nei rossi. Entrambi, dopo la svinatura e la torchiatura, tornano in anfora dai due ai sei mesi, per poi passare in grandi botti di rovere dai quattro anni in su e, infine, in bottiglia con tempo pari o maggiore a quello in legno. Quando Gravner si reca a Tblisi per fiere o nuovi ordini, la gente del vino lo riconosce, gli stringe la mano, vuole un selfie con il vignaiolo che ha rilanciato l’uso – e l’economia – delle anfore georgiane. In questo luogo le operazioni hanno ritmi lenti: sei follature al giorno durante il periodo di macerazione e raccolta a mano della parte solida durante la svinatura. La sedia al centro dell’anforaia – che ha un impatto scenico niente male – serve in realtà a calarsi nelle anfore senza contaminare le bocche di entrata. Mateja giura che lì dentro si avverte un gran senso di pace e di benessere. Non è un caso che Gravner abbia un bicchiere tutto suo, che ha di nuovo le forme morbide a avvolgenti di una coppa con due rientranze per “afferrare” letteralmente il vino. 

Un’idea nata da una visita a un monastero di Tblisi, dove il vino veniva servito in coppe di terracotta, perché contava la condivisione, non certo la degustazione. Nasce così il bicchiere Gravner realizzato dall’artista del vetro Massimo Lunardon. A tavola, mangiando i piatti a base di verdure di stagione della moglie Marija, scioriniamo tanti argomenti. Il vino è sempre accompagnato dal cibo, come gli incredibili salami e cotechini da razza suina Mangalica che lo stesso Gravner alleva e prepara. La carne macinata fa anche un passaggio nella Ribolla. Ci sono poi gli aceti di frutta, che si diverte a inventare, come quello di cachi, «Annata 2011, carica di zuccheri, perfetta per l’aceto». Tra un boccone e l’altro i temi sembrano affastellarsi, ma in realtà tutto converge verso un obiettivo, che è quello di fare un vino franco: «Il male della viticoltura mondiale è l’irrigazione. Fino a quando non verrà abolita, non si potrà ragionare su vini di qualità»; «Non diraspo più, se la Natura ha inventato il graspo un motivo ci sarà, e basta vendemmiare a ottobre per avere le maturazioni ideali. Inoltre, il graspo combatte l’insorgenza dell’acidità volatile»; «I vini non vanno filtrati perché scompaiono lieviti batteri e enzimi. Senza questi tre elementi il vino diventa una bibita». Tra un sorso e l’altro è il momento dei vini: «Il mio Breg non lo bevo più, non mi piace. La Ribolla invece mi dà felicità e profondità. I vitigni convenzionali si adattano a tutti i terreni del mondo, invece la mia terra è speciale perché unica»; «Non va oltrepassata la soglia delle sessantamila bottiglie, sennò il lavoro non è a passo d’uomo». Quattro anni fa entra in azienda anche la biodinamica – ma senza certificazione – guardata per anni da Joško con circospezione e anche con un po’ di sarcasmo.

 Ci ripensa e chiede scusa anche per questo: «Dopo solo due anni di pratica il terreno ha cambiato aspetto, è soffice, è vivo, respira. Ecco perché sono contrario all’uso dei vitigni resistenti (i cosidetti Piwi, viti resistenti alla crittogame, ndr), moltiplicheranno solo altre malattie, mentre nostro dovere è sanare la terra». La Ribolla è il vitigno di riferimento dei colli, sia goriziano che sloveno. Nella parte italiana un gruppo di produttori di Oslavia sta lavorando alla nascita di una Docg Collio Ribolla di Oslavia, già ribattezzata la “prima DOCG Orange”: «Non faccio parte dell’associazione – spiega Gravner – per un motivo banale. Che senso ha una denominazione dedicata alla Ribolla quando questi produttori continuano a piantare pinot grigio e sauvignon?». L’uomo libero Gravner parla poco, ma lo fa in modo ficcante e diretto. Dove si ferma lui, continuano i suoi vini. L’elenco un po’ spocchioso delle annate bevute (e non degustate), preferirei risparmiarvelo. Di certo esiste un Gravner prima di Gravner, con vini ancora importanti, anche sontuosi, calibrati, vini da “fare un figurone” (tipo il Breg bianco 1995) – ed è anche un peccato, tutto sommato, pensare al fatto che non esisteranno più. Un dispiacere che ti assale soprattutto bevendo il Rosso Rujno 2003 – Merlot con una piccola percentuale di Cabernet Sauvignon -, un bordolese che sembra nato a Pomerol. Il resto sono vini di luce, di vibrazione, senza tempo, attrattivi nel senso che calamitano nel bicchiere e  verrebbe voglia di calarsi in una di quelle anfore per capire davvero cosa significa sentire il respiro della terra.