Cantine Pellegrino

La dedizione di Pellegrino al Moscato e all’alberello pantesco

A dieci anni dal riconoscimento Unesco della coltura tradizionale ad alberello, Cantine Pellegrino spinge sull’acceleratore per valorizzare i prodotti di Pantelleria e lavora a un nuovo progetto di ospitalità.

Isola di una bellezza feroce e maltrattata, poco turistica eppure scelta per la villeggiatura dai vip che amano la riservatezza, Pantelleria è un continente a sé – lo dicono i panteschi stessi – e allo stesso tempo disegna una cerniera simbolica tra l’Europa e l’Africa. Vulcanica sotto il profilo geologico, è molto ventilata e siccitosa, eppure capace di trovare l’acqua quando serve. «Dove c’è vulcano c’è fertilità e dunque c’è vino, che può trarre dalla ricchezza di potassio una buona concentrazione di zuccheri», rimarca Nicola Poma, enologo di Cantine Pellegrino che ha scelto di dedicarsi gran parte dell’anno ai vigneti dell’isola.

Qui la famiglia Pellegrino è arrivata nel 1993, con l’intento di ampliare la produzione di Zibibbo – la parola di derivazione araba con cui è stata chiamato localmente il vitigno Moscato d’Alessandria e di conseguenza il vino liquoroso che ne veniva ricavato, rimasto fedele a quella impostazione fino a pochi decenni fa. L’obiettivo era rafforzare quantitativamente la produzione di Zibibbo per rispondere alla domanda del mercato, che guardava essenzialmente a un prodotto liquoroso modello Marsala. «Pellegrino già lavorava con Pantelleria, dove c’erano tanti piccoli produttori che però operavano quasi tutti nel mondo dello sfuso – riferisce Benedetto Renda, amministratore delegato di Cantine Pellegrino – e noi compravamo vino di Pantelleria. In quegli anni c’era una bella competizione sui vini dolci e metter piede sull’isola comportava un vantaggio. All’inizio non è stato facile, perché allora l’unica grossa struttura cooperativa assorbiva gran parte della produzione e c’era molta compattezza tra i viticoltori, ma in fondo anche un po’ di diffidenza per chi veniva da fuori. Era difficile trovare dei conferitori. Poi, quando la coop ha iniziato a navigare in cattive acque, la Pellegrino si trovò ad assorbire la produzione e oggi siamo i più grossi acquirenti di uva dell’isola».

Punto di riferimento a Pantelleria

Così, da quasi 30 anni, Pellegrino rappresenta il più importante riferimento per i piccoli produttori dell’isola con i quali ha costituito nel tempo una sorta di “patto per lo Zibibbo”, sostenendo le produzioni, prendendo in carico le uve da oltre 350 conferitori e producendo vini Pantelleria Doc. Consolidata questa posizione, Pellegrino ha deciso di rafforzare la presenza diretta sull’isola con una grande tenuta in contrada Sibà, sulle alture occidentali che guardano al Mediterraneo. La tenuta ricade all’interno dell’area naturale protetta dal Parco Nazionale di Pantelleria, si estende su 8 ettari di vigneti dislocati su un’altitudine che parte da 300 metri fino a toccare i 450 metri sul livello del mare.

«Dopo esser stati per anni un punto di riferimento per i viticoltori – spiega Renda – vogliamo cecare di avere una produzione parzialmente in autonomia. Anche perché il futuro non è roseo se si guarda all’età e alla tenuta dei coltivatori». Non si esclude dunque una ulteriore espansione con l’acquisizione di vigneti, soprattutto per non disperdere il patrimonio esistente.

Pellegrino ha dunque voluto prendere in mano le redini del proprio futuro in terra di Pantelleria, un’isola in cui crede fermamente. «Quest’isola è un unicum – rimarca l’ad – e io dico che non abbiamo nulla da invidiare (se non i costi di trasporto, nda) all’Etna, dato che siamo vulcanici e abbiamo l’insularità nel cuore del Mediterraneo, quindi abbiamo in mano ottime carte e dobbiamo saperle giocare».

Anche per questo Cantine Pellegrino ha creduto fin dall’inizio e supportato il lavoro del Consorzio e del Comune per il riconoscimento della protezione Unesco all’alberello pantesco, che dal 2014 è entrato nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità. Il gruppo spinge anche sull’enoturismo e nel periodo estivo Pellegrino apre anche le porte della Cantina di Pantelleria a turisti e appassionati del buon bere per degustazioni guidate, visite in vigna e in cantina, aperitivi al tramonto vista mare e abbinamento con i prodotti tipici panteschi. Nella tenuta acquisita due anni fa – recuperando un’area in abbandono parzialmente vitata e coltivata a uliveto – insiste un’antica cantina di origine pantesca e dopo la ristrutturazione potrà garantire uno sviluppo ulteriore del segmento dell’ospitalità.

Alzare l’asticella del vino

Per rilanciare Pantelleria, però, serve prima di tutto giocare la carta della qualità in bottiglia. «È fondamentale alzare sempre più la qualità dei prodotti», dichiara senza mezze misure Renda. E assaggiando i vini di Cantine Pellegrino fa piacere notare una linea elegante di evoluzione, tra dolce e secco. Dalle uve zibibbo coltivate sull’isola nasce infatti la “punta di diamante” della produzione di famiglia, il Nes Passito Naturale di Pantelleria. L’uva viene raccolta (a mano) surmatura, nel momento in cui raggiunge un elevato grado zuccherino, e nonostante porti nel calice una densità zuccherina che sviluppa sentori di miele e frutta candita, Nes è tutt’altro che stucchevole riuscendo a vibrare di freschezza mediterranea e sapidità marina.

È poi tutto da scoprire il più fresco Isesi, lavorato solo in acciaio, che dalle stesse uve Zibibbo trae la freschezza aromatica e la componente tiolica, che in alcune annate e con l’affinamento in bottiglia restituiscono al Moscato di Pantelleria l’eleganza di un vino fortemente vulcanico. Come per il passito, è la mineralità sapida a rendere intrigante questo vino.

Terreni vulcanici e un alberello patrimonio unico

«La natura dei terreni su Pantelleria è peculiare – spiega l’enologo Poma –.  L’isola è tutta di natura vulcanica, ma la composizione cambia da strato a strato, con aree caratterizzate dalla pomice, altre più sabbiose e altre ancora leggermente argillose. È però costante la presenza di ferro e silicato che impongono, come avevano imparato già gli antichi agricoltori, che dall’inizio di giugno in poi non si fanno più lavorazioni in vigna, altrimenti la polvere va a scottare gli acini. Io non ci credevo, perché quando sei abituato alle coltivazioni a Trapani o a Marsala questo non succede, e immaginavo che i panteschi fossero solo pigri – scherza l’enologo – ma poi ho provato io stesso gli effetti: il giorno dopo un passaggio in vigneto l’uva era come mitragliata. E allora ci teniamo la gramigna o altri infestanti fino all’autunno».

Senza interventi umani, le vigne di Moscato si devono arrangiare e sopravvivere all’estate secca. E in questo l’alberello pantesco – riconosciuto patrimonio Unesco nel 2014 – incarna la soluzione: tenuto con tronco molto corto, viene potato per lasciare a frutto poche gemme e le foglie contribuiscono a proteggere l’uva dai raggi solari, mentre i piccoli avvallamenti del terreno in cui sono piantate le viti servono da collettore per la brina mattutina, che viene raccolta e consente di arrivare all’autunno.

«Il riconoscimento Unesco è stato davvero importante e può spingere ulteriormente la viticoltura dell’isola – sottolinea l’ad Renda – perché altrimenti si rischia l’abbandono. E invece qui si respira quasi la sacralità del rapporto con la vite: quando poti lo fai in ginocchio, quando raccogli l’uva lo fai in ginocchio… E poi questo incredibile accorgimento che genera un microclima nelle conche capace di catturare la rugiada. Senza le conche le piante si seccherebbero».

Il rilancio dei vini di Pantelleria

«La storia enologica dell’isola è molto breve – chiosa Poma – dato che la dominazione araba ha portato sì la vite, ma non contemplava il consumo di vino. La cultura del vino nasce dunque meno di due secoli fa e in particolare con la lavorazione legata all’appassimento, dato che per il passito non c’è bisogno di freddo, non c’è bisogno di acciaio, non c’è bisogno di quasi nulla e quindi erano tecniche molto semplici che permettevano di puntare su questo prodotto. Lo zucchero faceva tutto. Ora invece il futuro dell’isola lo vedo molto sui bianchi secchi, sul quale si stanno muovendo bene anche altre piccole aziende sull’isola».

In effetti la Pantelleria del vino ha bisogno di nuovo slancio, dato che negli ultimi trent’anni ha perduto il 90% della produzione viticola. «Stiamo parlando di 500 ettari vitati – sottolinea Poma – rispetto ai 5mila ettari del secolo scorso. È vero che al tempo però le uve venivano utilizzate anche per l’appassimento (prima che l’uvetta venisse tutta importata dalla Turchia), come uva da tavola o venivano spedite in Piemonte per gli spumanti base Moscato».

Oggi la musica sembra esser cambiata, o almeno questo è l’auspicio guardando i segnali che vengono pure dal Consorzio. Da un lato i produttori sull’isola stanno prendendo la strada della vinificazione in secco, a fronte di una disaffezione del mercato per i vini dolci, che dunque sembrano destinati ad un consumo molto circoscritto. «Ci sono belle prospettive per il Moscato secco e si stanno facendo anche sperimentazioni per lo spumante», riferisce Poma.

D’altra parte il rilancio dei vini di Pantelleria passa prima di tutto dal recupero di un valore identitario, oggi apprezzato anche dal consumatore giovane. Perché se le grandi quantità di vino dolce messe sul mercato decenni fa non hanno più senso, un passito fatto con cura e tecnica può trovare davvero il proprio posizionamento in relazione alla cucina dell’isola, ai prodotti del territorio – dai capperi ai formaggi, dalle olive alle mandorle – e soprattutto collocandosi all’interno di una esperienza enoturistica. Il recupero dei dammusi, l’accessibilità delle aree interne dell’isola per cicloturisti o escursionisti (a piedi, ma anche sugli asinelli panteschi), l’offerta enogastronomica sono attrattive che si affiancano al patrimonio vitivinicolo che l’Unesco ha preso sotto la propria ala.

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