Sui 10 chilometri di rettilineo scorrevole e verdeggiante che conducono dal borgo livornese di Castagneto Carducci alla minuscola frazione di Bolgheri si affaccia una teoria di cantine da enciclopedia enologica. Siamo in alta Maremma, al centro di quell’anfiteatro naturale in cui la strada bolgherese fa da spartiacque tra le “scalinate” delle Colline Metallifere ammantate di boschi a est e l’arena pianeggiante che digrada verso il Tirreno a ovest, ad accompagnare lo sguardo dalla coltre compatta di vigne fino ai profili delle isole dell’arcipelago toscano. E, nei giorni più chiari, addirittura fino alla Corsica.
Da Tenuta San Guido — che con il Sassicaia annata 1968 è stata la prima a scommettere sul potenziale vitivinicolo della zona — a Ornellaia, da Michele Satta a Tenuta Guado al Tasso, da Grattamacco a Caccia al Piano e Campo alla Sughera. La concentrazione di realtà eccellenti è talmente alta da faticare a credere che in questo fortunato mosaico geologico riparato da una stretta di medie alture e rinfrescato dalle brezze marine, patria dei blasonati Supertuscan, fino agli anni 80 (il Disciplinare di tutela dei Vini Bolgheri che include bianchi e rosati è solo dell’83, mentre per l’estensione ai rossi si attenderà addirittura il 1994) il vino fosse affare per pochi.
Tra le altre, Le Macchiole è un’azienda dai tanti primati. Era il 1983 quando un ventunenne Eugenio Campolmi — unico produttore bolgherese originario del luogo, in un gruppo di “pionieri” arrivati qui da altre parti d’Italia — acquistava sei ettari di terreno sottratti a campi di grano e uliveti, piantandone quattro a vigneto per rinforzare la piccola produzione di Sangiovese e Trebbiano che alimentava lo spaccio di generi alimentari dei genitori. Con tutta la libertà di chi si trova a lavorare su strade non ancora battute, e con l’ispirazione dei tagli bordolesi che da qualche anno orientava le nuove scelte del territorio, iniziò contestualmente a testare varietà internazionali come Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e, per un breve periodo, addirittura Barbera. Tanto lavoro in vigna per familiarizzare con parcelle che mutano di metro in metro e tanto studio delle uve per capire come lasciarle esprimere al massimo del potenziale hanno portato Le Macchiole a concentrarsi per prima sui monovarietali. Dalle intuizioni del fondatore e dall’impegno costante di sua moglie Cinzia Merli — che dalla prematura scomparsa di Eugenio nel 2002 conduce l’azienda insieme al fratello e ai figli Elia e Mattia Campolmi — sono nate così bottiglie che sono un “distillato” degli umori bolgheresi più autentici, come il Messorio (100% Merlot), lo Scrio (100% Syrah) e il magnifico Paleo Rosso — in origine un blend di Cabernet Sauvignon e Sangiovese poi evoluto nel 2001 in un audace 100% Cabernet Franc.
Oltre che a godere delle attenzioni e dei riconoscimenti internazionali, tra le vigne che compongono gli attuali 31,5 ettari di proprietà si continua a fare ricerca con gli occhi fissi verso un futuro che punta tutto sulla sostenibilità e la valorizzazione delle proprietà intrinseche dei terreni. Qui si opera dal 2002 in regime biologico totale coadiuvato in alcune parcelle da pratiche biodinamiche, si sviluppa un piano di approvvigionamento energetico che prevede forniture unicamente da fonti rinnovabili e linee speciali per lo smaltimento dei rifiuti della lavorazione. E non solo. Nei prossimi mesi è in programma un piano di rinaturazione all’avanguardia, che vedrà sacrificare alcuni filari per agevolare la piantumazione di siepi con una varietà di piante e arbusti intorno e all’interno dei vigneti, che consentiranno di isolare le coltivazioni da eventuali fonti inquinanti e attrarre insetti impollinatori, api, farfalle e uccelli. Ai cordoni di albicocchi, meli, peri, a piante di edera, elicriso e botaniche da macchia mediterranea il compito di implementare la biodiversità, contenere gli attacchi parassitari e mitigare gli sbalzi climatici. Con l’obiettivo finale di ridurre al minimo la quota di interventi tecnici e preservare l’integrità del paesaggio circostante. Consapevole di quanto la tenuta sia legata a doppio filo alla ricchezza e generosità del territorio di Bolgheri, l’operato di Cinzia Merli e non si esaurisce in vigna.
Dal 2016 è anche l’arte a parlare la lingua del vino e a trovare nuove strade per aprire l’attività della cantina ai visitatori e gli abitanti di Castagneto Carducci. Dal primo progetto realizzato con i ricavi della vendita all’asta di 48 Mathusalem di Messorio con un’etichetta dell’artista Stefano Tonelli, che nel 2016 ha permesso di donare alla comunità cinque cornici in corten che inquadrano altrettanti punti di vista speciali all’interno del comune — una, naturalmente, con vista vigneti — alla nuova passione della squadra de Le Macchiole: la street art. È del 2018 il primo grande murale realizzato da Ozmo — al secolo Gionata Gesi, alfiere dell’arte urbana classe 1975 — che ha tracciato su una delle pareti della cantina l’iconografia a tratti epica dell’epopea familiare dei Campolmi-Merli e del borgo enoico che ne ha fatto da sfondo. C’è il gilet da caccia dal quale Eugenio non si separava mai, il “duplice filar” di cipressi cantato dal Carducci, la coccinella emblema di naturalità e la Marianna che guida il popolo, a ricordare come la rivoluzione del vino sia scaturita dalle varietà d’oltralpe. Un’altra grande parete che guarda ai filari di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon è di nuovo tela bianca per l’ultimo intervento ambientale, affidato quest’anno a Fabio Schirru alias Tellas, street artist sardo che ha raccontato il genius loci sintetizzandolo nei colori del mare e della terra, con il porpora del vino e il verde dei tralci a stagliarsi sulla trama ondulata dei colli e le punteggiature verticali dei cipressi.
Molto da degustare e altrettanto da ammirare a le Macchiole, ma per coloro che arrivano qui e intendono esplorare i dintorni c’è anche tanto da assaggiare, seguendo un itinerario lungo la strada bolgherese che regala piacevoli sorprese e novità gastronomiche. Poco più di un chilometro separa la cantina dal Macello di Bolgheri, recente creatura nata dalla joint venture tra il Macellaio (con la M maiuscola) Dario Cecchini e Omar Barsacchi, cuoco patron della già celebre Osteria Magona, a due passi. Se la Toscana tutta è terra di nobili tagli e fiorentine al sangue, in questa cucina “non di stelle ma di stalle” le mezzene di scottona chianina vengono sfruttate in ogni loro parte, dal petto al ginocchio, dal collo alla coda, per diffondere una modalità di consumo del manzo, ancora una volta, più sostenibile. L’unica concessione al suino si fa col Burro del Chianti — una preparazione a base di lardo, aglio e rosmarino che oramai è una firma di Cecchini — prima di affrontare una serie di ricette che “rivedono e correggono” la tradizione regionale. Non solo Peposo e Tartare di manzo con cipollotto e sale agli agrumi, ma anche Vitello tonnato e giardiniera, Tagliata di bavetta e Punta di petto ripiena con salsiccia e bietola, con i tagli meno pregiati esaltati dal passaggio sulla tradizionale griglia a brace o nel moderno Monolith Kamado.
A rendere la vita facile anche per i vegetariani provvede dal 2021 l’Osteria Ancestrale di Fabrizio Bartoli e Martina Morelli, parte del più ampio progetto che fa capo ad Arduino, Podere Rigenerativo. La promessa di una “regenerative farm to table experience” è onorata da un menu interamente consacrato agli ortaggi locali, all’olio da Leccino, Moraiolo, Frantoio e Coratina da ulivi centenari presenti qui ben prima che il signor Arduino (nonno di Fabrizio) acquistasse il terreno e dalle preparazioni casearie a base del latte delle capre e pecore che vivono in fattoria. Dopo anni di lavoro in cucine gourmet all’estero, i fondatori hanno fatto ritorno a Bolgheri riprendendo inizialmente in mano l’attività olivicola, alla quale si è affiancato un piccolo spaccio di ortofrutta e prodotti lavorati e via via una curata offerta bistronomica in orario di aperitivo, così apprezzata dal pubblico da arrivare a sbocciare nel vero e proprio ristorante, elegante e accogliente anche se ricavato da due container (dal design contemporaneo e firmati da architetti fiorentini). Eccezionale il pane fatto in casa con farina Gentilrosso dell’azienda, il cui servizio lascia spazio a un’infilata di gustose tapas plant-based, come il Taco alla plancha con salsa di borlotti fermentati, kimchi e yogurt, il Tortello con crema di cipollotto, spuma di rucola, albicocche e salsa royale, la Carota cotta nel suo succo e servita con elicriso e sambal di albicocche e l’indulgente dessert a base di cacao ecuadoriano, cioccolato fondente, caramello e timo limone.
Con la testa tra i filari, gli ulivi e gli alberi da frutto potrebbe capitare di dimenticarselo, ma ci troviamo a breve distanza dalle spiagge argentee della Costa degli Etruschi e non approfittare della buona cucina di mare, a pochi chilometri da qui, sarebbe un vero peccato. È sufficiente superare la bolgherese e guidare per 15 minuti verso sud per raggiungere San Vincenzo, dove sull’arenile accanto alla storica insegna del Gambero Rosso si staglia il profilo minimale e schematico del Bucaniere, di proprietà della famiglia Pierangelini. Dalle cucine del locale in equilibrio rigoroso ma accogliente tra vetrate e acciaio (il restauro del 2011 è stato curato dall’archistar Massimiliano Fuksas) arrivano le proposte di Fulvietto, che rende omaggio a uno dei piatti simbolo della rinascita gastronomica italiana degli anni 80 — la Passatina di ceci e mazzancolle del padre Fulvio — senza rinunciare a una visione personale. Razza, crema di patate e tartufo nero scorzone, Tartare di tonno con ginger e plancton e Cacio e pepe ai gamberi crudi sono solo alcune delle scelte che attingono sì dal Tirreno che circonda la sala del ristorante da ogni lato, ma anche dal meglio degli orti e delle materie prime della Val di Cornia.