La più antica regione vinicola emergente del mondo

In Georgia si produce vino da più di 8.000 anni - e i georgiani alzano i calici e brindano su tavole imbandite con piatti straordinari da altrettanto tempo

Il vino nel bicchiere che tenevo in mano era di quel nero violaceo proprio di una prugna su un piatto del colore della notte. Delle prugne mature aveva anche il profumo – ed era stato prodotto da un bambino di 9 anni. Ero seduto a un tavolo da Bina N37, un ristorante della capitale della Georgia, Tbilisi, situato in un edificio residenziale (il nome significa infatti “appartamento numero 37”). È di proprietà di Zura Natroshvili, un ex medico, e della moglie, Nino Baliashvili, che invece un medico lo è ancora. Inizialmente, l’appartamento doveva diventare la loro residenza, ma Natroshvili dopo aver cominciato a produrre vino sulla terrazza ha deciso, secondo una logica che sfuggirebbe ai più, di aprirvi un ristorante. La terrazza stessa, in principio, doveva ospitare la piscina per il figlio di Natroshvili, Irakli. Però, dopo che Natroshvili vi ha costruito una piattaforma rialzata di sabbia e ghiaia nella quale ha sotterrato 42 qvevri—i qvevri sono le grandi anfore di terracotta utilizzate nella vinificazione tradizionale in Georgia—l’idea della piscina è stata abbandonata. «Ho detto a Irakli:’Ascolta, al posto della piscina, hai la possibilità di fare il tuo vino e di venderlo’. Lui ha risposto: ‘Buona idea!’. Con i suoi risparmi, circa 500 lari, abbiamo comprato un qvevri e un po’ di uve Saperavi. L’anno seguente ha guadagnato 1.200 lari con il vino prodotto». 

Natroshvili mi stava raccontando tutto questo davanti a un pranzo di qartuli salata, ovvero un’insalata di cetrioli e pomodori onnipresente in Georgia; pkhali, una ricetta a base di verdure sminuzzate e noci macinate dalla consistenza simile a un paté; e ancora, ciliegie piccanti marinate all’aglio che non avrei mai smesso di mangiare. Erano le prime portate di una cena che si sarebbe protratta fino a notte fonda. Irakli, seduto di fianco al padre, appariva timido ma orgoglioso. Che ne fosse consapevole o no, Irakli stava proseguendo una tradizione vinicola lunga oltre 8.000 anni. Secondo i reperti archeologici, la più antica del mondo. Ma era quasi mezzanotte. Quando hai 9 anni, anche se sei il discendente di una nobile tradizione che ha origini nel periodo neolitico, è comunque ora di andare a letto. Degustare vino tradizionale in Georgia – vino fermentato e maturato in qvevri interrati, senza lieviti industriali o additivi, semplice e misterioso come sa essere questa bevanda – è come intraprendere un viaggio al contrario attraverso quegli otto millenni. Stretta tra le montagne del Caucaso Maggiore e quelle del Caucaso Minore, la Georgia è un ponte tra Europa e Asia. Durante i secoli, gli invasori l’hanno attraversata più volte: persiani, greci, romani, turchi, mongoli, russi. In tutto ciò, i georgiani hanno continuato a produrre vino. (E anche a cucinare: i deliziosi piatti georgiani risentono delle influenze asiatiche, mediorientali e dell’est europeo in uguale misura).

 Il giorno dopo la cena da Bina N37 mi sono diretto a nord di Tbilisi per incontrare Iago, che è il nome sia dell’azienda vinicola sia del proprietario, Iago Bitarishvili. È un fatto comune da queste parti. La maggioranza dei georgiani consumano vino locale, ovvero che acquistano da qualche vicino da cui si servono, insomma, da sempre. Circa 15 anni fa le cose hanno cominciato a cambiare, alcuni di quei “produttori della porta accanto” hanno iniziato a imbottigliare e vendere vino al di fuori della loro zona, prima a Tbilisi, poi nel resto del mondo. Bitarishvili è stato all’avanguardia di questa rivoluzione. Magro, barbuto, occhi verdi e sguardo penetrante, mi dice: «Ho cominciato a imbottigliare e vendere il mio vino nel 2003. È l’unica cosa diversa che faccio rispetto a mio padre e a mio nonno». Gli chiedo per quanto tempo la sua famiglia abbia prodotto vino. Mi risponde che non lo sa. Adesso però fa parte dell’organizzazione del New Wine Festival che si tiene ogni anno a Tbilisi. Un altro indizio dei tempi che cambiano: nel 2009, quando lui e i suoi soci lanciarono la prima edizione, raccolsero l’adesione di sole 15 aziende vinicole. Nel 2017 ce ne sono state più di 400. Bitarishvili mi versa un bicchiere color arancio-ambrato del suo Chinuri 2016. Il vino profuma vagamente di resina, con sentori di albicocca ed erbe aromatiche essiccate. 

Un vino complesso, con una vinificazione apparentemente semplice: le uve—polpa, vinacce, vinaccioli e graspi—vengono introdotti nei qvevri (una tradizionale cantina georgiana si presenta come una grande stanza con buchi circolari nel pavimento, dove i qvevri sono sotterrati fino al collo). I qvevri vengono sigillati, i lieviti contenuti nelle vinacce compiono il loro lavoro e, dopo tre o sei mesi, i qvevri vengono aperti. Le vinacce, i raspi e i vinaccioli sono rimossi e il vino viene trasferito in un altro qvevri dove raggiungerà la completa maturazione. Bitarishvili dice: «Per produrre vino in Georgia bisogna essere magri, dato che prima o poi si deve entrare dentro i qvevri per pulirli». E continua: «Lo dico sempre a tutti, “Non dite nulla sul nostro vino dopo il primo bicchiere, non giudicatelo dopo un solo assaggio. Se si toglie un lupo dal suo ambiente naturale, il lupo cambia”. Lo stesso accade con il vino». Più tardi, sono all’enoteca vino underground a Tbilisi a sorseggiare un bicchiere di Kereselidze Wine Cellar Aleksandrouli-Mujuretuli 2017. Sto pensando a diverse cose. La prima, che mi piace davvero molto questo rosso selvatico e intenso. La seconda, che non imparerò mai a pronunciarne correttamente il nome. La terza, che stanno passando una canzone dei Foo Fighters. Degustare un vino georgiano ascoltando “My hero” significa “tirarlo fuori dal suo ambiente naturale”? Non lo so. Però una cosa la so: è impossibile separare il vino georgiano dalla storia del suo paese. 

All’azienda vinicola Papari Valley, il proprietario Nukri Kurdadze mi racconta: «Durante il periodo sovietico, la tradizione dei qvevri si è quasi estinta». Questo vale anche per molte delle oltre 400 varietà di uva georgiane. «Ma i nostri vitigni sono sopravvissuti grazie ai nostri coltivatori. Abbiamo un animo ribelle». Con un bicchiere del suo ambrato Rkatsiteli 2016 in mano, un potente bianco tannico dai sentori di mandarino, aggiunge: «La sola parola che descrive il mio stato d’animo quando l’U.R.S.S. è caduta è: felicità. Non riuscivo a immaginarmi che questo mostro un giorno potesse crollare. Posso sopportare qualunque avversità, ma il mio sogno è che ciò che è accaduto qui nel periodo sovietico non succeda mai più, né a me né ai miei figli». Il vino, da queste parti, è profondamente radicato nella vita quotidiana, come poteva essere in passato in Europa, ma non è più. C’è vino in ogni occasione: a ogni pasto, in ogni casa. Qualunque mercato del paese, stazione di servizio o banchetto di strada ricolmo dei più disparati prodotti, tra secchi di plastica e cartoni di detersivo Persil, vende anche vino—di solito in bottiglie dell’acqua di plastica riciclate per l’uso, senza etichetta, prodotto da questo o quel vicino di casa, onnipresente e necessario quanto l’aria. Al monastero Shavnabada, fuori Tbilisi, Fratel Markus spiega: «Tutto è speciale, ma il vino richiede una cura particolare». È un uomo sulla trentina, con una lucida barba nera e maniere gentili. 

Siamo nella cantina di Shavnabada, monastero Ortodosso Georgiano costruito originariamente nel dodicesimo secolo e ricostruito nel diciassettesimo secolo, nuovamente chiuso nell’epoca sovietica e riaperto dopo la sua caduta. Qui vivono e lavorano 11 monaci. Tutt’intorno all’edificio di pietra i bossi sono in fiore e l’aria è pervasa del loro profumo. Il telefono di Fratel Markus squilla—la suoneria è quel brrring, brrring dei vecchi telefoni a disco. Lui gli dà un’occhiata e lo rimette nella tasca del suo saio. Alla domanda sul perché abbiamo ricominciato a fare vino, risponde: «La Georgia è un paese ospitale. Quando qualcuno viene a trovarti a casa, devi offrirgli pane e vino». Il Mtsvane 2004, un vino bianco che ha passato 14 anni chiuso nei qvevri, ha il colore del legno brunito e sa di noci e affumicato. Il Saperavi 2007 è secco, aspro e dal forte sentore di ribes. Lui commenta mentre lo degusto: «Noi non filtriamo i nostri vini, né usiamo additivi – sarebbe una mancanza di rispetto verso il vino stesso. È il sangue di Gesù Cristo». Quando lavoro, sono solito sputare il vino che assaggio. In questo momento, però, mi pare una cosa decisamente fuori luogo. Inoltre il Saperavi è eccellente. Lo bevo tutto. Fratel Markus continua: «Il nostro scopo, come monaci, è dare felicità al prossimo, non guadagnare denaro. Nel nostro vino mettiamo anima e cuore, ecco perché è diverso. Dio è sempre presente in ciò che facciamo». 

Quando gli chiedo se pensa mai alle persone che bevono il suo vino a migliaia di chilometri di distanza, a Denver, Chicago o Seattle, risponde: «Dio c’è, ed è dovunque nel mondo. Non dobbiamo vederci di persona per sentirci vicini l’uno all’altro, quindi gli Stati Uniti non sono poi così lontani». Supra: questa parola significa, letteralmente “tovaglia”. Però, come scopro la sera successiva all’azienda vinicola Pheasant’s Tears, nella città di Sighnaghi, situata in cima a una collina e affacciata sulla fertile valle di Kakheti—il vero significato sarebbe “sfrenato festeggiamento collettivo che prevede un’infinita serie di deliziose portate e tanto vino da poterci riempire una piscina”. Pheasant’s Tears, fondata nel 2007 da un artista americano immigrato qui, John Wurdeman, e da Gela Patalishvili, è stata una delle prime aziende di vino tradizionale georgiano a vendere negli Stati Uniti (Wurdeman ha ufficiosamente ricoperto il ruolo di ambasciatore del vino georgiano in generale). I Supra sono cerimonie festose, celebrano l’abbondanza e la gioia. Prevedono moltissimi brindisi. Come mi aveva spiegato Natroshvili da Bina N37: «Il primo brindisi, almeno nella parte occidentale del paese, è sempre dedicato a Dio. Nella parte orientale, invece, lo si dedica alla pace, dato che la zona è sempre stata in guerra. 

Poi alle persone che sono mancate, alle nuove vite e ai bambini, alle donne, all’amore, agli amici e così via. Sono almeno 25, spesso anche di più». Insieme ai brindisi c’è anche il cibo. A un supra, i piatti arrivano ma raramente vengono sparecchiati una volta consumati. Presto, il tavolo è sommerso da un mare di stoviglie. Vi sono supra in occasione di matrimoni, di compleanni, di funerali, quando la squadra del cuore vince o quando gli amici si ritrovano insieme, vi sono supra perché, al diavolo, è sabato. La ragione principale da Pheasant’s Tear quella sera era il ritorno di Wurdeman da un lungo viaggio, anche se purtroppo il suo aereo aveva subito un ritardo in Canada. Il suo staff, tutto georgiano, aveva deciso di festeggiare lo stesso. Vassoi di funghi appena raccolti con erbe aromatiche; khachapuri, una sorta di flatbread ripieno di formaggio; involtini di melanzana tagliata sottile con pasta di noci, o nigvziani badrijani; chakapuli, il tipico stufato di agnello con dragoncello fresco; tenero pollo arrostito in salsa a base di latte e aglio, o shkmeruli—ed era solo l’inizio.

 E, in mezzo a tutto ciò, i brindisi: gaumarjos, o “vittoria”, l’equivalente del nostro “salute”; gagimarjos, o “alla tua salute”; gadvimarjos, o “a tutti”. Ho perso il conto. A sera inoltrata, sospinti da numerosi giri di chacha—la versione georgiana della grappa—abbiamo finito per brindare perfino a Freddie Mercury. Lo staff aveva ritenuto necessario anche il karaoke, che è degenerato in un tavolo di georgiani che canta- vano a squarciagola: “Scaramouche, Scaramouche, will you do the fandango?” in qualcosa di vagamente somigliante a una chiave di La maggiore. In Georgia, come nella vita, capisci che alcune cose sono universali: vino, cibo, amici, il bisogno umano di stare insieme, e anche “Bohemian rhapsody”. 

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