È un paesaggio disegnato dal vino, quello valtellinese. Frutto di quell’ingegno e quella dedizione che hanno portato, una pietra dopo l’altra, a rivestire l’intero versante delle Alpi Retiche di terrazzamenti e muretti a secco, complessivamente di 2.500 km, dove si adagiano le vigne.
Per queste terre verticali, il vino è stato, nei secoli, risorsa e nutrimento, grazie a quel clima temperato che già i Romani avevano individuato come ideale alla coltivazione delle uve retiche descritte da Virgilio. Parlare di clima temperato per una valle che si colloca al confine tra Lombardia e Svizzera, nel mezzo tra le Alpi Orobiche e Retiche, può sembrare paradossale. Eppure, qui, sono proprio l’orientamento est-ovest della vallata sulla linea insubrica e la ripida inclinazione dei pendii a decidere dell’insolito microclima. La prima perché determina che il lato sulla destra orografica del fiume Adda sia costantemente esposto a sud; la seconda perché, compensando la distanza dall’equatore, fa sì che l’incidenza del raggio di sole risulti perpendicolare al terreno, garantendo le stesse ore di luce che troviamo, nientemeno, a Pantelleria. Ecco spiegata la particolare ricchezza di vegetazione mediterranea che popola la Valle (fichi d’India, erbe aromatiche, capperi), ma anche la predisposizione alla produzione di uno vino rosso secco ottenuto da uve appassite tra i più famosi al mondo, lo Sfursat.
Grazie a queste favorevoli condizioni climatiche, la Valtellina ha potuto rispondere alle sue indiscusse limitatezze territoriali e al suo isolamento con l’autosufficienza alimentare, diventando produttrice autonoma di un po’ tutto ciò che fosse necessario alla sopravvivenza dei suoi abitanti. Tra i filari, orientati perlopiù a rittochino, cioè secondo la maggiore pendenza del terreno, in direzione perpendicolare rispetto alla parete della montagna, hanno infatti sempre trovato dimora altre colture, come ortaggi, verdure, meli e persino cereali, quali la segale, o pseudo tali, come il grano saraceno, che tutt’oggi connotano il ricco paniere agroalimentare della zona.
Pizzoccheri: il piatto simbolo
Se dovessimo scegliere un piatto in grado di sintetizzare il savoir-faire dei valtellinesi, il loro vivere lento in sinergia con il territorio e la loro capacità di ottimizzarne le risorse che può offrire, la scelta ricadrebbe senz’altro sui pizzoccheri.
La ricetta è codificata dall’Accademia del Pizzocchero di Teglio, perciò, quando si dice pizzoccheri, si fa riferimento proprio a quella preparazione e a quell’insieme di ingredienti che la compongono, ovvero pasta con farina di grano saraceno, verza, patate, burro, formaggio Casera Dop, grana, aglio e pepe. L’elemento principe della preparazione è la farina di grano saraceno, una pianta erbacea originaria dell’Asia nord-orientale, ma stabilitasi in Valtellina almeno dal ‘600. Epicentro della coltivazione locale del grano saraceno (pseudo-cereale della famiglia delle Polygonaceae di cui si consumano gli acheni, impropriamente detti semi) è sempre stata l’area di Teglio, a est della provincia di Sondrio, dove sono presenti i due ecotipi tellini, Nustran e Curùnin.
La loro coltivazione è stata mantenuta grazie all’operato di pochi anziani agricoltori della zona, dove un tempo sorgevano anche numerosi mulini alimentati dai corsi d’acqua dalle montagne. Oggi, l’ultimo baluardo rimasto integro è il mulino Menaglio di Teglio, collocato su un ripido pendio della Val Rogna, in frazione San Rocco, che è stato recuperato dal comune e trasformato nell’esempio meglio conservato di tali antichi macchinari. Il mulino è attivo per piccole macinature interne, ma è principalmente un hub per la promozione della cultura agricola di Teglio, dove vivere anche esperienze turistiche. Come quella che ci ha visto coinvolti in prima persona nella macinatura delle farine e nella preparazione dei pizzoccheri, secondo la ricetta tradizionale e le indicazioni delle volontarie dell’Associazione per la coltura del grano saraceno di Teglio, che opera nel mulino. Come molte preparazioni contadine antiche, anche questa spicca per sostenibilità, non solo perché si serve unicamente di prodotti locali e stagionali (una “deroga” permette, in estate, di sostituire le verze con le coste o i fagiolini), ma anche perché tutti gli ingredienti vengono cotti insieme, in un pentolone, andando a comporre un piatto unico sostanzioso, ideale per affrontare i primi freddi alpini o rifocillarsi dopo una passeggiata in e-bike negli irti vigneti terrazzati che compongono il Paesaggio Rurale Storico valtellinese.
A cosa abbinare i pizzoccheri
Cosa bere con questo piatto unico tanto sostanzioso? Ovviamente un vino rosso di Valtellina, e qui non c’è che l’imbarazzo della scelta. Vista la grassezza del piatto, determinata dall’importante presenza di burro e formaggio, e la generale tendenza dolce, un buon abbinamento invoca proprio quelle componenti di freschezza e sapidità che caratterizzano i vini ottenuti da nebbiolo delle Alpi, meglio noto localmente come chiavennasca. Sono doti che gli derivano dal microclima, dalle escursioni termiche e dalla composizione dei suoli, sabbiosi, ricchi di minerali e poveri di sostanza organica, che rendono i vini anche molto longevi.
L’uva che alimenta la blasonata produzione langarola di Barolo e Barbaresco connota quindi, in maniera praticamente univoca (compartecipano per non più del 10% uve locali come pignola, rossola e brugnola), anche la viticoltura valtellinese, declinandosi in sfumature organolettiche molto diverse a seconda degli areali di riferimento. Su 800 ettari di superficie vitata troviamo, infatti, una Doc, Rosso di Valtellina, e due Docg, Valtellina Superiore, con le relative cinque sottozone (Sassella, Valgella, Inferno, Grumello e Maroggia), e Sforzato di Valtellina, che fanno tutt’ora della Valtellina l’unico areale con due Docg coincidenti per territorio e vitigno. Partendo, quindi, dalla freschezza schietta e fruttata del Rosso di Valtellina, ci si addentra via via in una maggiore complessità e territorialità con i vini delle sottozone, fino all’equilibrata rotondità degli Sfursat, ottenuti da uve appassite.
Per abbinare con successo questo piatto vegetariano, dal sapore di casa e di antico, non è necessario spingersi tanto in là con la complessità, ma ci si può affidare alle “squillanti” declinazioni dei Rossi di Valtellina Doc, vino quotidiano per antonomasia, dal corredo gusto-olfattivo fruttato, floreale e succoso nella dote acido-sapida. Noi abbiamo scelto quello davvero fragrante e teso della piccola azienda familiare Alberto Marsetti, nel cuore di Sondrio. Se tuttavia volete optare per un Valtellina Superiore, meglio orientarsi sulla sottozona di Sassella, la più nota e storica della Valle, foriera di vini dai profumi schietti di frutta, arancia e fiori, tannicità bilanciata, sapidità e grande freschezza, conferite dalla composizione sassosa dei terreni. Ad esempio, potete provare quello della storica cantina Nino Negri, azienda che abbiamo inserito anche tra le migliori 50 cantine dell’anno del nostro Speciale Vino.