Da Chef de Cave a Toji. I riflettori sul sake si sono accesi qualche tempo fa, quando Richard Geoffroy, enologo di Dom Pérignon, ha deciso di trascorrere la sua pensione dorata producendo la famosa bevanda giapponese. Il “Toji”, infatti, è l’equivalente dello Chef de Cave per il sake.
La prefettura è quella di Toyama, nello splendido scenario delle montagne di Tateyama. A dire il vero il fermentato di riso nipponico sta riscuotendo un buon successo ovunque e da fenomeno asiatico è diventato qualcosa di più, ritagliandosi spazio nelle drink-list dei locali che contano. L’Italia poi si è posizionata secondo come paese per l’importazione, preceduta dalla Gran Bretagna. Unico neo è che la quantità non fa rima con la qualità: siamo infatti tra gli ultimi per valore delle bottiglie.
Ma cosa sappiamo del sake (che va scritto senza accento)? Innanzitutto, occorrono alcune smentite. Il sake non va bevuto caldo, non è un distillato bensì un fermentato, non fa a pugni con il cibo ma, anzi, lo valorizza. Il suo nome antico è “nihonshu” (alcol o vino del Giappone, diventato una G.I. – Geographical Indication – nel 2015) e i locali tradizionali dove lo si consuma si chiamano “izakaya”. Per produrlo bastano – si fa per dire – pochi ingredienti: riso, acqua, koji (un fungo o muffa dal nome latino Aspergillus oryzae) e lievito. Le somiglianze con il vino non mancano perché hanno gradazioni alcoliche simili, bottiglie assimilabili e vengono bevuti a pasto. Totalmente differenti invece i livelli di acidità, alti nel vino, bassi nel sake. Nella bevanda del Sol Levante, poi, non vi è alcun bisogno di solfiti.
Marco Massarotto, fondatore delle Vie del Sake e del Japan Festival di Milano (ora impegnato nel lancio di Nippon Concierge, tour operator per gli amanti del Giappone enogastronomico e non solo) ricorda che nel corso della sua prima visita a una “kura” (la cantina) osservò, davanti a un produttore, che il sake andava bevuto caldo: «Lui e un’amica giornalista rimasero di stucco. Passai l’intera serata ad assaggiare tipologie diverse di sake e me ne appassionai». Sono passati circa quindici anni e dal 2016 Massarotto è “Sake Samurai”, un titolo assegnato dall’associazione giapponese dei produttori che sceglie ogni anno cinque personaggi che si sono distinti nella promozione della bevanda. Attualmente Marco è l’unico in Italia: «Ne ho colto appieno il senso, accompagnandolo al cibo. Avendo come base l’umami, e quindi un mix di dolcezza e sapidità, si sposa con i piatti per complementarietà. In pratica va bene con tutto – a patto che si scelga il sake appropriato».
Lo stile di una volta li voleva torbidi e con un sapore che ricordasse i cereali. Con alcune innovazioni tecniche come l’introduzione di raffinatrici verticali del riso, il sake si è fatto limpido (si può arrivare a una raffinazione pari al 93 per cento) o più ammiccante, con delicati sentori di fiori e frutta (i più neutri sono i Junmai, i profumati si chiamano Ginjō). Versato con grazia dalle mani delle geishe o utilizzato dai samurai per darsi coraggio prima della battaglia, il sake è da sempre legato a figure cardini della cultura nipponica, così come allo scintoismo che ne fa la bevanda ufficiale. Anche qui l’industria ha avuto la meglio – il 30 per cento del totale è prodotto da grandi marchi – ma le minuscole brewery – talvolta anche casalinghe – non sono sparite. I colossi si chiamano Gekkeikan, Hakutsuru, Ozeki: in tutte le brewery, piccole e grandi, il lavoro inizia nel tardo autunno e finisce in primavera.
Per Giovanni Baldini, fondatore di Firenze Sake, galeotto fu un viaggio in Giappone nel 2004 (tra l’altro andava a conoscere i suoi futuri suoceri): «Ero un aspirante fotografo e mi proposero un servizio nelle kura. Ne rimasi così affascinato che ho cominciato a frequentarle anche da operaio per imparare a fare il sake». Queste figure si chiamano “kurabito”, gli uomini della cantina: sveglia all’alba e lavoro a oltranza, rispetto delle gerarchie e condivisione dei luoghi di riposo: «Si vive assieme 24 ore al giorno, l’igiene è massima così come il silenzio, interrotto di tanto in tanto dalle sakauta, gli antichi canti che scandiscono il ritmo». In Italia Giovanni importa piccole cantine di pregio. La più antica risale al XVI secolo e ha cominciato a riscuotere successo a Firenze grazie ai bartender: «Sono stati loro – spiega Baldini – a capire l’importanza del sake nella mixology». Il nuovo progetto dell’imprenditore è la Scuola Italiana Sake: «Avrà corsi per ogni esigenza, dall’appassionato al professionista. E sarà operativa, quindi lezioni ma anche viaggi in Giappone e pratica presso le cantine. Punto a diplomati in grado di saper fare il sake».
Dedito alla formazione è anche Lorenzo Ferraboschi, titolare a Milano di Sake Company (azienda di distribuzione) e di Sakeya (bar, ristorante e shop dedicato al sake), nonché responsabile italiano della Sake Sommelier Association (SSA): «La figura del sake sommelier – spiega – è sempre più richiesta. In Italia ce ne saranno circa cinquecento». Come importatore ha cominciato a lavorare anche sul sake frizzante, ultima moda in tema di fermentato di riso. Tanti viaggi e visite in cantina anche per lui. «In Giappone non si parla di “terroir” né di certificazione biologica. La qualità del riso conta, ma conta molto di più l’acqua – che dev’essere povera di minerali e purissima. Sono poche le aziende che coltivano il riso in proprio: la maggior parte delle cantine compra dai consorzi. Tuttavia, il rilancio del Giappone agricolo passa anche attraverso le filiere corte e si comincia a parlare di zonazione».
foto di Giovanni Baldini (tipi di Riso specifico per la produzione di sake presso Tomita Brewery,nella prefettura di Shiga)
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