A ogni rintocco del campanile di Sampigny-Lés Maranges Ratapoil inizia a ululare. Ratapoil è il labrador nero di Talloulah Dubourg e Hugo Mathurin e la sua risposta al suono delle campane, pur trovandosi giù nella piccola cantina del Domaine de Cassiopée, è una sorta di canto lirico, bellissimo anche se leggermente inquietante. «L’abbiamo chiamato così ispirandoci al nome di una tenuta nello Jura che ci piace molto – spiega Mathurin –. I loro vini sono alquanto bizzarri ma, quando trovi quello giusto, è delizioso». Ratapoil, stanco di cantare e disinteressato alle origini del suo nome, viene a sedersi sui miei piedi.
Dubourg e Mathurin sono i giovani proprietari del Domaine de Cassiopée, che hanno fondato nel 2020. Sono andato a trovarli non solo perché i loro vini sono eccellenti, ma anche perché fanno parte di una nuova generazione di produttori della Borgogna che sta scuotendo un luogo che, in realtà, non ama gli stravolgimenti. La maggior parte di loro è giovane, coltiva in modo biologico o biodinamico e propende verso stili di vinificazione meno invasivi – lieviti autoctoni anziché selezionati, meno rovere nuovo, livelli di solforosa più bassi – e quasi tutti si trovano in denominazioni come Maranges, che non gode neanche lontanamente del prestigio di luoghi come Vosne-Romanée o Gevrey-Chambertin. La differenza sostanziale è che il terreno di Maranges se lo può permettere anche chi non è miliardario.
Dubourg e Mathurin hanno lavorato entrambi in tenute di prestigio – lei da Clos de Tart, un rinomato Grand Cru, e lui al Domaine Roulot e al Domaine Jacques-Frédéric Mugnier – ma i loro quasi 5 ettari qui sono un’impresa certamente più umile. Tuttavia, sono stati fortunati a ottenerli. Hanno acquistato la proprietà da un danese che aveva tentato, senza successo, di produrre vino per poi decidere di tornare in Danimarca. «Non l’aveva messa in vendita online, se l’avesse fatto si sarebbero precipitati tutti qui da ogni angolo della Borgogna nel giro di due giorni – mi ha detto Dubourg –. Ma ci disse che era felice di vendere questo terreno a giovani viticoltori che volevano formare una famiglia proprio qui». Anche questo fa parte del loro piano. Il nome Domaine de Cassiopée, in onore della costellazione di Cassiopea, strizza l’occhio alla loro filosofia ma anche al loro futuro familiare. «Lavoriamo molto con la luna e con la biodinamica, quindi ci sembrava giusto così. E, tra l’altro, Cassiopée sarà anche il nome che daremo alla nostra futura figlia, che speriamo di avere un giorno», ha aggiunto Dubourg.
Per molti aspetti, questa nuova Borgogna assomiglia a quella di un tempo, quando era ancora una regione di piccoli domaines a conduzione familiare e senza grandi pretese, la controparte meno raffinata dei grandi châteaux di Bordeaux. Quella Borgogna risalente a prima che vini come Armand Rousseau Chambertin e Roumier Les Amoureuses iniziassero a essere venduti a prezzi oltre i 4.500 euro. Questi nuovi produttori borgognoni posti ai margini tendono a operare più come un ristorante appena aperto – puoi essere lo chef o, in questo caso, l’enologo, ma ti ritrovi anche a essere il commercialista, l’agricoltore, l’idraulico, il carrellista, l’intermediario e il capo lavapiatti e spesso sei anche un genitore. L’eleganza non gioca un ruolo preponderante. Quando più tardi mi sono fermato a trovare Vincent Chevrot del Domaine Chevrot, sempre a Maranges, ricordo che indossava occhiali da sole, una maglietta nera di Monkey Bizness Skate Wear e pantaloncini corti. Si trovava in piedi accanto al tavolo da ping-pong che lui e suo fratello Pablo tengono sullo spiazzo dell’azienda vinicola. «È utile per rafforzare il concetto di team-building!», ha detto.
La storia del Domaine Chevrot è più lunga di quella di Cassiopée, la famiglia Chevrot coltiva questi terreni fin dal 1800. Come spesso accade, per decenni hanno venduto il vino a grandi aziende négociant. «Ma la nostra generazione è diversa – mi ha detto Vincent –. Non vogliamo che i nostri vini spariscano nelle botti di una grande azienda (certo che no! Sarebbe triste se il loro straordinario e seducente Marangessur le Chêne esistesse solo per ingrossare il Bourgogne rouge di qualche négociant, nda)».
Come i vini di Maranges, anche quelli di Fixin, appena a nord di Gevrey- Chambertin in direzione di Digione, hanno avuto per molto tempo la reputazione di vini austeri e poco raffinati; ottimi per l’assemblaggio, non così entusiasmanti da soli. «È questo che la gente pensa ancora dei vini di Fixin, che sono “rustici”», mi ha detto Amélie Berthaut, del Domaine Berthaut-Gerbet, mentre, nella cantina sotto la casa della sua famiglia, mi versava uno dei suoi vini. «In passato venivano associati a tannini grezzi e ruvidi, è vero. Ma era la vinificazione di un tempo: vendemmia meccanica e molta estrazione. Siamo stati noi a contribuire al cambiamento». Berthaut ha rilevato il domaine di famiglia nel 2013, quando aveva solo 25 anni, nonostante una precoce inclinazione a voler fare tutt’altro: «Vedevo che i miei genitori lavoravano sempre tanto e questo non mi piaceva. Da bambini non li vedevamo mai, a meno che non volessimo lavorare con loro. Quando tornavo a casa da scuola, facevo i compiti appoggiata sulle botti». Ciononostante, il vino ha avuto la meglio e, come per i fratelli Chevrot, anche Amélie Berthaut ha contribuito a diffondere una nuova sensibilità e un nuovo approccio ai vini Berthaut-Gerbet. Il suo Fixin Rouge, per fare un esempio, è un vino ricco di note croccanti di frutti rossi, fresco e vivace, tutto fuorché “rustico”. E il suo complesso e stratificato Fixin Les Arvelets, Premier Cru, conferma pienamente quanto afferma: «Les Arvelets è una grande vigna. È Fixin, non sarà una denominazione famosa, ma non ha niente da invidiare ad altri vigneti più blasonati».
Nel mio viaggio attraverso le località meno decantate della Borgogna, ho visitato quasi dodici domaines emergenti che producevano tutti vini di pregio (la maggior parte dei quali sono menzionati nel mio nuovo libro, The World in a Wineglass, che racconta produttori simili di tutto il mondo). Nel piccolo paese di Meloisey, nella Hautes Côtes de Beaune, Agnés Paquet produce rossi e bianchi di una trasparenza brillante che sfidano completamente le vecchie aspettative rispetto a ciò che le fredde vallate delle Hautes Côtes erano in grado di produrre. «È strano ma a causa del cambiamento climatico qui adesso possiamo produrre vini abbastanza maturi – ha affermato –. Ciò ha comportato un interesse sempre più crescente da parte delle persone, ma d’altronde ho sempre fatto vino in denominazioni poco famose. Quando ho iniziato nessuno conosceva Auxey-Duresses, non sapevano nemmeno come si pronunciasse. “Si dice osée o oxée?”, mi chiedevano. Ma in ogni caso, l’importante è che se ne parli!».
A circa un paio di chilometri da Paquet, Morgane Seuillot e Christian Knott del Domaine Dandelion coltivano biologicamente poco meno di 4 ettari di vigne, lavorando il più possibile con i cavalli (Safran e Reine, che facevano parte della squadra del padre di Seuillot fino alla sua scomparsa nel 2022). «Il terreno è sicuramente meno compattato se si usano i cavalli – mi ha raccontato Seuillot mentre assaggiavamo i vini seduti al tavolo della loro cucina –. Infilando la mano nel terreno, la consistenza è morbida e soffice al tatto, non densa e dura». Ironia della sorte, la vecchia generazione delle Hautes Côtes è quella abituata a coltivare con erbicidi e fertilizzanti chimici, spesso guardando con sospetto le pratiche biologiche e biodinamiche. Seuillot coltiva leguminose, come fave e piselli, accanto ai filari per aumentare il contenuto di azoto nel suolo. Ma anche se è cresciuta a Meloisey, ha ricevuto commenti di scherno: “Pff, Morgane et ses petits pois!”, tradotto dal francese: “Morgane e suoi piselli!”. Lei ricorda l’episodio con una risata: «Sicuramente vedono che i nostri vigneti hanno un aspetto diverso».
Nessuno ha mai detto che l’agricoltura biologica sia facile. A volte, i vecchietti del paese prendono in giro i tuoi legumi, a volte le tue uve di pinot nero vengono mangiate dai tassi come mi hanno raccontato a Savigny-lès-Beaune da Chanterêves, il famoso micro-négociant (ora domaine) fondato dai coniugi Guillaume Bott e Tomoko Kuriyama nel 2010. A differenza dei négociant tradizionali, che spesso acquistano il vino finito, Kuriyama e Bott hanno comprato l’uva da agricoltori con idee simili alle loro e hanno prodotto i loro vini da soli, lavorando con uno stile a basso intervento senza però avventurarsi nel campo del vino naturale. Kuriyama mi ha detto: «Semplicemente, produciamo vini che vogliamo bere noi per primi» e, in qualunque modo si vogliano classificare, quelli di Chanterêves sono espressivi ed eleganti. Nel 2020 sono finalmente riusciti ad acquistare un terreno, un trionfo che però ha anche comportato qualche problema. Kuriyama mi ha versato un po’ del rosso Savigny-lès-Beaune Dessus de Montchenevoy, aromatico e dai sentori di lampone, che proviene da un piccolo appezzamento di viti di loro pro- prietà collocato in cima alla denominazione. «È molto isolato e dobbiamo recintarlo perché altrimenti i tassi vengono a mangiare l’uva. Sono ostinati!», mi ha raccontato.
Siamo portati a pensare che la reputazione delle regioni vinicole, come nel caso della Borgogna con la sua gerarchia piramidale di Grand cru, Premier cru e le Aoc regionali e comunali, sia scolpita sulla pietra o come scritta nel “terroir” sotto i nostri piedi. Ma la verità è che tali reputazioni, spesso e volentieri, sono influenzate dagli eventi. Come accade per Maranges o Meloisey, Givry, nella Côte Chalonnaise della Borgogna meridionale, solitamente non viene menzionata allo stesso modo di Chambolle-Musigny o Vosne-Romanée, per fare un esempio. L’ultima volta che ha avuto la stessa fama risale all’epoca in cui i suoi vini erano, si narra, i preferiti di Enrico I, re di Francia. Considerando che ciò è avvenuto intorno al 1600 o giù di lì, è passato un po’ di tempo. Ma come dice Philippe Pascal, proprietario del Domaine du Cellier aux Moines a Givry, «ci sono grandi terroir qui nella Côte Chalonnaise, paragonabili a quelli che si trovano nella Côte de Beaune e nella Côte de Nuits. La differenza è che qui, dopo la fillossera e la Prima Guerra Mondiale, abbiamo avuto anche la comparsa dell’industria siderurgica. All’epoca, l’attività vinicola era difficile. Molti uomini lasciarono le vigne per andare in fabbrica, così per 50 anni i vigneti della Côte Chalonnaise rimasero indietro: meno investimenti, meno reimpianti. Dagli anni 70 abbiamo recuperato terreno, ma la strada è lunga».
Ci sono voluti più di 10 anni prima che Philippe trovasse Cellier aux Moines e quando è arrivato qui era in condizioni terribili, con gli edifici in stato di abbandono e il vigneto in pessimo stato. Lui e sua moglie, Catherine, hanno impiegato cinque anni a ristrutturare la proprietà. Oggi la casa in cui vivono ha riacquistato smalto, con la splendida terrazza in pietra che si affaccia sui vigneti in leggera pendenza fino alla città di Givry. Confina con l’originaria cantina dei monaci dove, mentre ce ne stavamo al fresco, mi ha raccontato: «Fu costruita intorno al 1130 e successivamente i monaci continuarono ad ampliarla fino al 1750 circa. Poi naturalmente, nel 1789, il governo rivoluzionario li cacciò». Un enorme torchio per l’uva, che i monaci ricavarono dalle imponenti querce della vicina foresta, occupa ancora gran parte dello spazio. L’imponenza di quel macchinario – la trave orizzontale principale pesa tre tonnellate – era notevolmente in contrasto con la leggerezza del pranzo che Catherine ha preparato per noi poco dopo: una quiche salata a base di cremoso formaggio Chaource, poulet en croûte e una fresca insalata verde.
Dopo aver mangiato, ci siamo seduti in terrazza e abbiamo bevuto un bicchiere del profumato bianco Domaine du Cellier aux Moines Montagny Les Combes Premier Cru. Philippe ha poi proseguito: «I monaci, in Borgogna, sceglievano sempre luoghi molto speciali per fare il vino. Quando abbiamo visto questo posto, anche se stava cadendo a pezzi, ci siamo emozionati». A quasi sessant’anni, Philippe è più grande di molti altri viticoltori borgognoni che ho avuto il piacere di conoscere – per lui questa è la seconda vita professionale – ma il suo enologo, Guillaume Marko, ha trent’anni e lavora con lui in piena sintonia: agricoltura biodinamica, lieviti autoctoni e vini che preservano il carattere del luogo da cui provengono. Poi ha aggiunto, pensieroso: «Sai, quando ti ritrovi in un momento della tua vita in cui cerchi di dare un significato a quello che fai e quando vedi un posto speciale come questo, ricco di così tanta storia, allora ti rendi conto che è il luogo in cui sei disposto a passare l’ultimo capitolo della tua vita». Più tardi, mentre eravamo seduti a bere della Chartreuse e a mangiare il sorbetto alle fragole di Catherine, semplice e delizioso, mi ha confidato: «Cellier aux Moines, “la cantina dei monaci”. Forse è un nome terribile, ma non credo che lo cambieremo. Facevano parte dell’ordine cistercense. Si stabilirono sulla collina, proprio in questa casa: erano gli stessi monaci che qualche anno prima avevano piantato il Clos Vougeot. Bene, allora. Givry non sarà famoso come Vougeot, ma anche la nostra storia merita!».
Una guida alla scoperta dell’altra Borgogna
Dove degustare
Le cantine di cui ho parlato qui sono piccole e di solito non sono aperte al pubblico, almeno non nel modo in cui si pensa alle cantine della Toscana o della Napa Valley, giusto per fare un esempio (semplicemente, non dispongono di personale addetto a gestire una sala di degustazione). Il modo migliore per visitarle è affidarsi a un buon tour operator. Per i domaines della Borgogna, sia emergenti che affermati, il migliore è Loïc Lamy di Hautes Côtes. È un ottimo narratore, nonché traduttore, ed è amico di molti dei produttori di questa storia. Inoltre, produce lui stesso una piccola quantità di vino eccellente con il suo progetto di micro- négociant Vins Saisons. (hautescotes.com)
Dove alloggiare
L’Hôtel de la Poste nel centro di Beaune è conveniente e comodissimo. Ciò che manca in termini di lusso è compensato dal fascino. Soggiornando qui si ha sicuramente la sensazione di essere in Francia, ma forse in un’epoca un po’ più antica e tranquilla. (poste.najeti.fr)
Se preferite evitare la città per immergervi nel cuore dei vigneti francesi, andate all’Olivier Leflaive Hôtel a Puligny- Montrachet, di proprietà dell’omonimo produttore di vino. È arredato con eleganza e si trova nel cuore della Côte d’Or. Il ristorante in loco è eccellente. (hotel.olivier-leflaive.com)
Dove mangiare
Boulangerie Gagnepain
Pierre-André Gagnepain produce – non esagero – alcuni dei migliori croissant in circolazione nel suo laboratorio nelle Hautes Côtes de Beaune, nella piccola città di Mavilly- Mandelot. L’inconveniente è che è aperto solo per un’ora quasi tutte le mattine e le persone del posto acquistano regolarmente i suoi prodotti. Organizzatevi per tempo. (2 Grande Rue, Mavilly- Mandelot)
Au Petit Bonheur
Una raffinata cucina francese di campagna con ingredienti freschissimi e una carta dei vini ben selezionata e a ottimo prezzo è ciò che meglio rappresenta questo luogo affascinante nella piccola città di Curtil-Vergy. (restaurantaupetitbonheur.com)
Caves Madeleine
Uno dei migliori e più suggestivi ristoranti di Beaune, Caves Madeleine è amato anche dai produttori di vino locali, che vengono per il cibo di qualità e a km 0 dello chef Martial Blanchon e per l’ampia carta dei vini (una selezione di 700 etichette), tra cui quelli di produttori difficili da trovare. (cavesmadeleine.com)
Le Soufflot
Questo è il posto perfetto per fermarsi a pranzo a Meursault, a condizione che non siate voi a dover guidare, data la vasta e conveniente proposta di vini. Il menu prix-fixe dello chef Jérémy Pezé è incentrato su piatti
che tengono conto dell’abbinamento cibo-vino. (restaurant-meursault.fr)