«L’Amarone è stato in passato un vino che ha soddisfatto una domanda di mercato. I produttori della Valpolicella sono stati tra i più bravi a capire che, soprattutto in Nord Europa e Nord America, c’era la necessità di un vino morbido, caldo e piacevole, adatto per essere consumato lontano dai pasti. Questo ha consentito un grande successo volumetrico. Oggi quel segmento non cresce più e regala molte più ombre che sicurezze per il futuro». Basterebbero queste veloci e lucide pennellate di Andrea Lonardi, vicepresidente del Consorzio di Tutela Vini della Valpolicella e fresco Master of Wine, per sintetizzare la transizione che oggi il “Re dei rossi veneti” vive sui mercati e tra i winelover. Sì, perché la monarchia dell’appassimento sembra in questo momento vivere di antichi fasti che tendono ad appannarsi.
Con un mercato che scivola verso consumi ridimensionati di vino, soprattutto dalla Generazione Z in poi, e soprattutto meno alcolici, meno corposi, meno concentrati, meno zuccherini, tutti i plus dell’Amarone rischiano di esser di troppo. Per rincorrere quella domanda internazionale e locale, si è ecceduto con l’appassimento e con la concentrazione. E quel segmento di mercato, ha evidenziato Lonardi in occasione della manifestazione Amarone Opera Prima organizzata dal Consorzio, «si è popolato di altri vini che competono solo in termini di prezzo. Subire un attacco di questo tipo significa avere consapevolezza che quel vino era un modello facilmente imitabile: infatti il metodo era superiore al territorio».
Risultato? I dati presentati da Carlo Flamini, responsabile Osservatorio del vino di Unione Italiana Vini, sono impietosi. «I rossi sono stati i primi a bucare sui mercati internazionali – spiega l’analista da Verona – ma sono anche i primi a risentire di una flessione costante dei consumi». E così il 2023, dopo l’anomalo rimbalzo del 2021 legato al post pandemia, vede una caduta dell’Amarone del 17%. E se il presidente del Consorzio Christian Marchesini enfatizza giustamente il calice mezzo pieno, osservando come il vino più conosciuto della Valpolicella abbia toccato quotazioni mai viste per valore, l’avvertimento di Flamini è forte e chiaro: l’Amarone come lo conosciamo è diventato un prodotto per boomer e il suo pubblico di estimatori rischia l’estinzione.
Cambio di stile
Se dunque l’Amarone non è un vino per giovani, penalizzato dal climate change e dal mutamento negli stili di consumo, i vignaioli sono chiamati a un cambio di passo. «Dobbiamo cambiare ed evolverci – avverte Lonardi –, reindirizzando i nostri vini verso un’evoluzione in termini di geografie di mercato e di profilazione del consumatore. Per farlo occorre (anche ma non solo) un cambio stilistico». Il Master of Wine ricorda come i fine wines debbano avere un profondo legame con il territorio di origine, «valori e un wording comunicativo specifico tali da renderli identitari (e contestualmente, ndr) in grado di creare continuamente valore». E allora «occorre pensare a un Amarone che rimetta in equilibrio i suoi fattori produttivi: il metodo (la messa a riposo), il territorio (suolo, vitigni, clima), le persone (produttori, imprese) e la comunicazione».
La sfida è chiaramente complessa, prevedendo un passaggio «dal volume al valore» che tutto il comparto vino è chiamato a fare. Eppure la consapevolezza che la leadership del Consorzio ha manifestato in occasione di Amarone Opera Prima fa ben sperare in una evoluzione che faccia crescere anche i produttori. Qual è dunque l’orizzonte? Un Amarone meno concentrato, meno giocato sull’appassimento, meno muscolare e più verticale, più elegante. Per usare la parafrasi del wine expert Filippo Bartolotta, “più Sinner e meno Schwarzenegger”. E naturalmente meno in quantità per eccellere sui mercati. Forse allora il “Re dei rossi veneti” – come viene appellato – è nudo? Non necessariamente, ma al Consorzio Vini Valpolicella va riconosciuta l’onestà intellettuale di aver indicato senza alibi il rischio. E tutto sommato il presidente Marchesini è netto nel ricordare che le tipologie nella denominazione sono diverse, non a caso il Consorzio dedica attenzioni crescenti al Valpolicella Superiore, forse il vero “vino di territorio” che potrebbe trainare un nuovo slancio tra i consumatori nuovi.
Il calice guarda al futuro
Ora la palla passa ai produttori, ai vignaioli che devono riuscire a portare in cantina ottime uve e agli enologi che devono giocare con mano leggera. Lo faranno? O sentiranno questa evoluzione – o rivoluzione? – come una perdita di identità tradizionale? La risposta si assaggerà nel calice tra qualche anno. Nel frattempo l’annata 2019 assaggiata all’anteprima di Verona non sembra ancora allineata alla new wave. Sono ancora poche le etichette orientate verso un cambio stilistico, forse pure qualcuna in meno di quanto sembrava lo scorso anno.
Su tutte spicca la mano raffinata di Marco Speri, che con il suo Amarone Secondo Marco può rappresentare il metro di paragone in Valpolicella: elegante e sottile, nervoso nei tannini eppure nitido nel frutto, non vira su muscoli e marmellata. Un vino da bere, insomma, che eleva gli aromi dell’uva senza sdolcinatezze.
Tralasciando le prove da vasca o da botte, ci sono poi conferme di un percorso in fieri nei calici di cantine storiche e giovani realtà: da Bertani a Corte Sant’Alda, da Santa Sofia a Monte del Frà, da Bolla a Corte Canella alla Collina dei Ciliegi, da Novaia e Villa Bellini fino all’interessante Contrada Palui. Il vino è ancora troppo giovane e merita qualche anno di bottiglia in più, ma gli assaggi disegnano traiettorie da seguire con attenzione. In attesa di assaggiare l’Amarone del futuro.