“Vaccino”, “disoccupazione”, “pane”. A fine marzo il sito americano Eater ha dedicato un articolo alle parole più googlate della quarantena: nella top tre, prevedibilmente, figurava il re degli impasti; bastava fare un giro sui social in qui giorni per notarne l’impennata di popolarità. Nei secoli il pane ha attraversato fasi alterne di apprezzamento: è stato totem spirituale “allo spezzare del pane…”), poi pietra angolare della cultura cerealicola e culinaria contadina, prodotto di massa dell’industria alimentare (Wonder Bread), talismano di un manipoo di artigiani del cibo al limite dell’hipster. Tra marzo e aprile è stato dichiarato “bene essenziale”, tanto da consentire alle bakery di restare aperte, pur con aggiustamenti cautelativi del servizio. Hanno dovuto chiudere i ristoranti, i forni no. C’è un simbolismo potente in questo. Avevamo già deciso, quando è scoppiata la pandemia, di dedicare un servizio alle donne del pane, non tanto per spingere un’agenda di genere, quanto per dedicare uno spazio alle protagoniste troppo raramente celebrate di un bene che la fa da superstar.
I momenti “a-ha”
Valeria Messina, proprietaria di Forno Biancuccia a Catania, ha cominciato quando ancora lavorava come responsabile dell’ufficio legale di una società. «Cercavo le farine nei mercatini e panificavo la notte, infornando la mattina, prima di andare in ufficio. I primi esperimenti furono drammatici: le mie figlie mi chiedevano “Mamma, ma ci hai messo l’aceto?” ». L’americana Lori Oyamada, uno dei nomi più rispettati della scena mondiale, che ha trascorso un lungo periodo a Torino e sta lavorando a un nuovo progetto in Francia, ricorda di quando cominciò da Tartine (sì, proprio il celebre tempio del pane di Chad Robertson, a San Francisco): «Alle 4 del mattino facevo il turno dei croissant, poi andavo al parco a schiacciare un pisolino e rientravo alle 3 del pomeriggio per far pane fino alle 9 di sera. Sono la quarta persona in assoluto a cui Chad abbia insegnato a fare il pane. Quel durissimo tirocinio è durato sei mesi. Non li dimenticherò mai». Silvia Cancellieri, proprietaria di Tondo (Milano), si emoziona raccontando delle prime consegne allo scoppiare dell’emergenza covid, con il negozio inaugurato da una manciata di giorni: «Ci lasciavano i soldi sullo zerbino, e noi con gioia depositavamo le pagnotte sapendo che avrebbero allietato la quarantena di chi non poteva neanche uscire per fare una spesa». Per Francesca Casci di Pandefrà (Senigallia) il momento “a-ha” (la folgorazione, come anche la massima soddisfazione), invece, è arrivato con l’ordine del tristellato Mauro Uliassi: «Non ci credevo, al telefono gli ho fatto ripetere due volte il nome. Quella al suo ristorante è stata la prima consegna che ho fatto. Al ritorno mi sono messa a piangere». Per Lorenza Roiati di L’Assalto ai Forni “aha” è stato «chiudere un cerchio, rientrando a casa (letteralmente: il suo forno l’ha aperto nel palazzo dov’è nata, di proprietà della sua famiglia, nda), in una Ascoli Piceno svuotata dal sisma del 2016, e sentirmi in poco tempo inondata d’amore».
Percorsi non convenzionali
Se la memoria storica ci riporta a una figura di panettiere uomo, il presente della professione baker è sempre più legato a vicende di donne. «Per noi è un po’ un ritorno», ragiona Messina. «Soprattutto al Centro-Sud, il pane ha sempre rappresentato un’occupazione femminile, ma limitatamente alla mura domestiche; i maschi, invece, la sceglievano come professione, quasi sempre se c’era già un’attività commerciale di famiglia». Si può discutere dei motivi di questo avvicinamento delle donne al mondo degli impasti professionali – un rinascimento di tutta la filiera, dai grani al pane, con il moltiplicarsi di modelli “giovani” e multifunzionali; un miglioramento della qualità del lavoro e quindi della vita, reso possibile da nuovi strumenti e tecnologie, come forni programmabili e celle fermo-lievita, che permettono di cuocere non appena si arriva in laboratorio e di programmare la maturazione di lievito e pagnotte – ma il dato realmente interessante è la “biodiversità” della comunità che compongono.
«La maggior parte proviene da background che con il pane non c’entrano nulla», osserva Sophia Ohligs, un master in fine arts e un curriculum da head baker, tra De Superette di Kobe Desramaults (Ghent) e l’ahimè defunto Forno Collettivo, a Milano. «Penso che questo plasmi anche il nostro approccio alla professione: portiamo un contributo già maturo, oltre a una cultura profonda e sfaccettata. È uno dei motivi, per esempio, che ci spingono a fare ricerca sui grani antichi e particolari». Formazione artistica anche per Marisol Malatesta, peruviana di Lima, che insieme a Simone Conti ha aperto Tilde Forno Artigiano a Treviglio (BG), e che tutt’ora mischia all’attività di panificazione anche quella di perfomer e docente (un’altra bread artist, sebbene pù. radicale nell’approccio, è Lexie Smyth, di Bread on Earth). «Il mio background mi permette di leggere tutti i progetti in chiave di processo, non tanto come prodotti finali, e questo vale anche per il pane. Nel pane ho trovato un oggetto meraviglioso, con grande valore tecnico ed estetico, e un preciso contesto storico« ». Valeria Messina e Francesca Casci condividono una laurea in legge; dalla chimica arrivano, invece, Aurora Zancanaro, grande apri-pista con la sua microbakery Le Polveri (Milano), e Lorenza Roiati. La danese Sofie Wochner lavorava nell’industria del cinema prima di cambiar rotta dirigendosi in Irlanda, alla celebre Ballymaloe Cookery School, poi a Parigi, e infine a Roma: qui ha aperto Marigold, insieme al marito cuoco, Domenico Cortese. «Sognavo una carriera da film producer ma a 28 anni non ne potevo già più. Sono nata in una fattoria a un’ora da Copenaghen, per me è stato naturale pensare di ricominciare facendo pane, integrandolo con una cucina sana, quasi farm cooking, ma pensata per una grande città».
Pane, sì, ma quale?
Ma che pane fanno queste donne? Intanto, la formula prevalente è quella classica del forno di piccole-medie dimensioni: un nucleo di pani-base e speciali a rotazione, oltre a focacce e pizze alla pala, biscotteria e torte da credenza – quasi tutto a lievitazione naturale. Particolare è la grande ricerca sulle vecchie varietà e i miscugli evolutivi (miscugli in campo di varietà vecchie e nuove) di grano, come anche la volontà di legarsi al territorio sia nella selezione di aziende agricole e mulini, sia attraverso il recupero “creativo” di pani tradizionali locali. Forse il dato più particolare (ma non sorprendente) è la presenza al banco anche di prodotti di chiara ispirazione estera, nordeuropea, anglosassone. Casci ha iniziato col filone marchigiano, «perché non volevo stravolgere le abitudini dei senigalliesi, ma inserendo farina integrale e semi-integrale molita a pietra da un mulino di Ancona, e pasta di riporto, come si faceva originariamente», ed è famosa anche per i “nodi” al cardamomo. Valeria Messina fa un pane in cassetta con farina di Maiorca (vecchia varietà di grano tenero siciliano) e grano saraceno o segale, oltre ai “classici” di Russello, Perciasacchi e Tumminìa (vecchi grani duri locali). Da Tilde è possibile trovare una versione rivisitata del “pan de mej”, con miglio o mais, oltre a pani di farro (monococco, dicocco, spelta), di segale, di vecchie varietà miste o mono-varietali, ma anche brownies e torte al limone e semi di papavero. All’Assalto Lorenza Roiati usa vecchie varietà locali come Solina e Iervicella, e fa pani speciali con verdure (per esempio cavolo nero e nocciole), oltre a una squisita torta di segale e cioccolato ispirata alla boulangerie parigina Poilâne. Roiati tra l’altro ha la fortuna di contare tra i suoi clienti Salvatore Ceccarelli, ascolano nonché “padre” dei miscugli evolutivi in Italia e nel mondo, e di servire ben due tipologie di pane con varianti del mix da lui sviluppato («Quando arriva gli chiedo: “Salvatore, ti do un Ceccarelli?”»). Da Marigold Sofie Wochner fa un sourdough (pane a lievitazione naturale, con una caratteristica mollica fondente e piacevolmente acidula) da manuale: una tipologia più diffusa nel Nord Europa e in America, verso la quale sempre più panificatori (uomini e donne) sembrano volersi orientare, anche in Italia. Ottimo il suo pane di segale con semi, anche quello in perfetto stile nordico, così come i cinnamom swirls e i Semlor buns (cardamom buns farciti di marzapane e panna montata). «La cultura del pane qui è molto sentita, e mi è sembrata anche un po’ “set in stone”, granitica: per questo ho voluto provare a portare, invece, il modo di panificare del mio paese, ma usando farine locali». A Roma, di certo, non mancano altre donne del pane di grande autorevolezza e carattere, come Laura Palombi di Santi Sebastiano e Valentino e Pina Fioretto, di Semi’n’aria, vera leggenda, che oltre a produrre pani che “fanno bene” coltiva straordinari grani antichi su terreni di proprietà (da ben prima che diventasse di moda farlo).
“Boys and their toys”
«Ho l’impressione che, rispetto agli uomini, le donne del pane tendano a orientarsi su modelli di business di scala più piccola», ragiona Carol Choi, prima pastry chef a New York e poi fantastica sourdough baker in Europa, con esperienze a Copenhagen, tra il Noma e i ristoranti di Christian Puglisi, dove ha conosciuto il marito, lo chef Francesco Scarrone. Trasferitasi in Italia, ha partecipato all’avviamento di Forno Collettivo e nel 2019, con Scarrone, ha inaugurato Rantan, micro-fattoria con chef’s table (un tavolo sociale da 14 coperti, con due servizi settimanali) in Valchiusella, Piemonte. Il pane, da Rantan – un sourdough di farine semi-integrali provenienti da piccole aziende agricole e mulini della regione – si degusta insieme a un percorso di piatti che pescano dal vissuto dei due padroni di casa, tra influenze coreane, danesi e italiane, nel pieno rispetto della filosofia “nose to tail” e di un coerente ultra-locavorismo. Qualche forma è anche in vendita, al termine del pasto. Il caso di Rantan è unico, ma diciamo che integrare bakery e cucina certamente permette di allargare i margini di un business che, se mantenuto piccolo, rischia di restare sempre poco redditizio (penso, restando in area donne, a Santi, Sebastiano e Valentino e a Marigold). Sicuramente, qualche che sia il modello scelto, per le donne è importante creare un’esperienza che rappresenti la loro personalità al 100%. Una sana ossessione per la ricerca di profili gustativi e di prodotti sempre particolari, oltre che di formule assolutamente nutrienti, sembra essere un filo conduttore nell’approccio delle baker. L’aspetto scientifico della gestione degli impasti piace a tutte, anche se forse non è in cima alla lista delle priorità. Forse sono gli uomini a essere più fissati con gli elementi tecnici del processo (perfettamente significativo, in questo senso, il divampare della passione per il pane nella iper-tecnologica Silicon Valley), in un confronto di alveolature e percentuali di idratazione che può diventare anche molto competitivo. Indubbiamente, come in cucina, anche in panificazione esiste una certa “bro culture”, a volte bulletta. «A me hanno ripetuto un sacco di volte “non è un lavoro da donna, non resisterai a medio-lungo termine”», ricorda Cancellieri. «Infatti una donna che vuol fare questo mestiere deve avere l’ambizione, la “cazzimma”», dice Casci. «Ma se trovi una donna che sa fare il pane e che ce l’ha, puoi star certa che quella donna varrà quanto due uomini».
Le donne di queste pagine fanno (o hanno fatto) pane in Italia. Ma anche nel resto del mondo le baker stanno guadagnando sempre più spazio e attenzione. Nataša Djuric, slovena, lavorava in un centro specializzato nel telerilevamento quando l’ha punta la febbre della panificazione domestica. Oggi è la head baker di Hiša Franko, il ristorante di Ana Roš. «Panificare per un ristorante non è come farlo per un forno. Non cambiano solo i quantitativi (una ventina di chili al giorno, contro il range 60-200 chili che abbiamo registrato per le nostre intervistate, nda), ma anche il tipo di ricerca e sviluppo sul prodotto. L’elemento trainante è gustativo, serve un pane che complementi la cucina, e che racconti una storia in linea con quella. La mia ricetta preferita? Il pane con farro locale e porridge di miglio, perché quest’ultimo da noi è il comfort food per eccellenza». In California c’è Sarah Owens, ceramista, orticultrice, sourdough baker, autrice pluripremiata di numerosi libri, specializzata in vecchie varietà di vegetali e antiche tecniche di cucina (come racconta il suo ultimo volume, “Heirloom: Time-honored techniques, nourishing traditions, and modern recipes”), che trasmette al pubblico nel corso di interessanti workshop. «Insegno alla gente a rallentare e ad affinare l’arte dell’osservazione», spiega dal giardino della sua casa, dove quando ci parliamo sta scontando come tutti la quarantena. «Un momento perfetto per accettare il silenzio e imparare a conviverci». Lei detesta fare del pane una questione “binaria” (approccio maschile versus femminile), anche se ammette che sono gli uomini ad ambire maggiormente a un primato tecnico: «Io amo quando posso provare che il mio approccio a una ricetta ha una base scientifica, ma non è quello a darmi gioia quando faccio il pane». Altri nomi di baker straordinarie? L’irlandese Louise Bannon di Tir Bakery, nella campagna danese; Monika Walecka di Cala W Mace, a Varsavia; Alice Quillet della parigina Ten Belles; Vanessa Kimbell di The Sourdough School, in Inghilterra. E ancora: Wing Mon; Pamela Yung; Jennifer Latham. E molte altre. Vi racconteremo le loro storie a poco a poco. Restate sintonizzati.
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