Iper-tradizionali o creativi, morigerati o dalle farce lussuriose con ingredienti locali (anche salati e decisamente inusuali, dalla mela annurca alla ‘nduja) o profumati da spezie e agrumi in arrivo da Paesi lontani, in forme e colori inusuali o ripieni di creme o di gelato: di panettoni e pandori, nati in Lombardia e Veneto ma assurti a dolci natalizi per eccellenza, esistono notevoli esempi artigianali dalle Alpi alle isole. Eppure, l’Italia vanta un notevole patrimonio di ricette tradizionali di ciascuna regione – e talvolta di ciascuna provincia – che non hanno niente da invidiare alla soffice e burrosa opulenza dei grandi lievitati: complice il caro-prezzi che negli ultimi due anni ha fatto registrare un +37% nel costo dei panettoni artigianali, questo potrebbe essere il momento giusto per (ri)scoprirli, tornando a portare in tavola sapori cui i nostri nonni e bisnonni non avrebbero mai rinunciato o anche esplorandone di nuovi, guardando oltre i confini cittadini o regionali per sperimentare quanto proposto da artigiani e chef che affiancano alla stretta osservanza della tradizione le opportunità offerte dalle innovazioni tecnologiche e logistiche.
È un mosaico fatto di prodotti un tempo poveri e legati ai ritmi delle campagne, di forme e consistenze pronte a sottolineare la solennità dell’occasione, di lavorazioni semplici ma laboriose che diventavano occasione di ritrovo, di leggende e usanze, di quel che c’era di più prezioso in credenza, conservato per rendere almeno un po’ speciali i giorni delle feste: uvetta, frutta secca, spezie, olio d’oliva, miele e qualche volta il cioccolato, con tanto di disciplinari a sostituire le ricette tramandate oralmente e i gesti replicati di generazione in generazione.
Così ad esempio a Cormons, nel Collio friulano, si deve alla passione e intraprendenza del trentenne Giacomo Brandolin la Gubana più buona che ci sia capitato di assaggiare, in cui la classica forma a chiocciola di questo dolce di confine – tipico soprattutto delle Valli del Natisone, dove nacque come torta nuziale – trova un’inedita morbidezza. Giovane perito agrario e imprenditore, alla coltivazione di spirulina Giacomo ha affiancato la preparazione artigianale di questi dolci la cui ricetta originale della bisnonna Maria è stata tramandata a partire dagli anni 30 alla nonna Luciana, alla mamma Gianna e adesso a lui, che si occupa tanto della commercializzazione quanto della realizzazione: per ora nel forno di casa insieme alla famiglia, come microimpresa domestica, ma presto nel nuovo laboratorio ricavato in una storica osteria di Cormons, che ospiterà anche spaccio e caffetteria per assaggiare le gubane e le altre specialità de L’Antica Ricetta.
A Castelnuovo Berardenga è lo chef Senio Venturi – una stella Michelin al ristorante L’Asinello – a interpretare la lunga tradizione senese del Panforte, dolce dalle origini trecentesche il cui nome rimandava al sentore pungente della frutta all’interno dell’impasto che inacidiva. Dal Cinquecento appannaggio dei farmacisti senesi, che lo arricchirono di miele e spezie di cui Siena era fiorente centro di scambio, col tempo è diventato il protagonista delle tavole natalizie, legandosi a stretto giro alla città anche grazie agli artisti chiamati a illustrare le confezioni così come il Palio. Oggi la ricetta del Panforte di Siena Igp è certificata dal disciplinare che ne annovera due varianti: il Bianco, o Margherita (creato nel 1879 in omaggio alla regina Margherita di Savoia), prevede farina tipo 0, mandorle dolci intere e non pelate, cedro e arancia canditi, zucchero, miele e spezie. In quello Nero, o Panpepato, il cedro è sostituito dal melone, la copertura è a base di spezie e il miele è facoltativo, o di castagno, dando un carattere più deciso e in qualche modo più grezzo ma non meno affascinante.
A Roma, Pierluigi Roscioli – nel forno di famiglia aperto dal papà Marco nel 1972 – è tra i pochi a portare avanti la tradizione del Pangiallo, raro esempio del repertorio dolciario della Capitale: sorta di pagnotta tonda e compatta a base di farina, miele, cioccolato, scorza d’agrumi e frutta secca e candita, ha origini antiche quasi quanto quelle della città. Come racconta Apicio nel De re coquinaria, veniva preparato per i Saturnali – festa che precedeva il solstizio invernale, in quella che oggi è la metà di dicembre – e la sua forma rotonda e il colore tendente al giallo (dovuto tradizionalmente allo zafferano, che oltre a profumare l’impasto compone la glassa a base di farina e miele che a volte lo riveste) ricordano appunto il sole, mentre l’interno è scuro e intenso. La ricetta proposta ancora oggi dall’Antico Forno Roscioli, Pierluigi l’ha appresa da ragazzino dal campano Francesco Coda, pasticcere di Cantiani, storica insegna del quartiere Prati: «Abitava qui vicino e nella pausa pranzo veniva da noi a fare qualche dolce come il pangiallo, di cui ci lasciò la ricetta scritta con la biro su un foglio di carta», ricorda Roscioli.
A Scanno, borgo abruzzese nella valle del Sagittario, il pasticcere Angelo Di Masso – affiancato dal fratello Giulio alla guida del locale di famiglia – ha raccolto l’eredità del padre Gino, detto Liborio. Fu lui, negli anni 60, a ideare l’ormai iconico dolce (preparato tutto l’anno ma divenuto un classico del Natale) a base di mandorle e ricoperto da un sottile strato di cioccolato, che riprende e ingentilisce con ingredienti di pregio il rustico parrozzo pescarese cantato anche da D’Annunzio. «Voleva dedicare un dolce a sua mamma Angela Lena, grande cuoca che tutti chiamavano Angiulella. Fu il poeta dialettale scannese Marco Notarmuzi a suggerire invece il nome Pan dell’Orso, più legato al questo territorio di montagna», spiega Angelo. Fu sempre Liborio Di Masso a ideare il Pan dell’Orso in formato mignon, perfetto come snack, mentre c’è anche la variante con gocce di cioccolato e senza copertura. Angelo oggi continua a sfornare pure gli scarponi, biscotti a losanga con cioccolato, nocciole e noci che ricorderebbero le calzature dei pastori: le donne, si racconta, li preparavano per alleviare la loro stanchezza a fine giornata. E ha inventato lo Scarponaccio, pane dolce con gli stessi sapori.
Si trova solo a Cerignola, cittadina del foggiano che guarda al Tavoliere delle Puglie, la portentosa e insolita Pizza Sette Sfoglie: diffusa in una zona ristretta almeno dall’Ottocento (la prima menzione scritta risale però al 1964, mentre la ricetta fu pubblicata per la prima volta su una rivista negli anni Ottanta), il nome potrebbe essere una dedica alla Madonna dei Sette Veli venerata a Foggia in ricordo di un’apparizione del 1731 – ma le sette sfoglie potrebbero riferirsi ai giorni della settimana o ad altre interpretazioni di questo numero denso di significati simbolici. Si tratta di un friabile involucro di sfoglia sottilissima che accoglie un sostanzioso ripieno a base di uva passa, mandorle, olio extravergine, mostarda d’uva, pinoli, cannella, scorze d’agrumi, vaniglia e cioccolato fondente. Così almeno è nella versione di Tommaso Perrucci, maître chocolatier che dopo aver lavorato all’estero è tornato qui per aprire la cioccolateria Bramo e seguire il Bar Roma, attività di famiglia famosa per il gelato dove ne perpetua la preparazione tradizionale. Deve avere forma rotonda e un formato da condivisione, secondo precise ritualità legate a preparazione – cui nelle case partecipa tutta la famiglia, ciascuno con un compito – e consumo, che scandisce le feste dal 2 novembre fino all’Epifania (un tempo fino a Pasqua).
A San Giovanni in Fiore, borgo calabrese della Sila, si prepara la bellissima e squisita Pitta ‘Mpigliata, la cui forma ricorda un’infiorescenza di pasta non lievitata, sottile e croccante, ripiena di miele, uva passa e noci con spezie e liquori. Citata nel contratto di matrimonio tra Angelica Gianquinta e Battista Caligiuro datato 1728 – in cui si stabiliva che “a far la bocca dolce ai commensali” pensasse la famiglia dello sposo, con una pitta della “finezza giusta” –, secondo una leggenda sarebbe nata dall’incontro tra un contadino perdutosi nei boschi e una fata che lo guidò a casa: per riconoscenza, lui le preparò un dolce con quel che aveva in dispensa. A riprenderne la tradizione – perlopiù casalinga, o interpretata in maniera grossolana dalle versioni industriali – sono i fratelli Giovanni e Marco Piccolo insieme al panettiere Rocco Pisano, che hanno creato Dulcis in Fiore nel 2021: mettendo a frutto nel periodo pandemico l’esperienza di Rocco e Marco (tecnologo alimentare che ha lavorato in pasticceria durante gli studi) e l’attitudine imprenditoriale di Giovanni (ingegnere elettronico per la Rai), hanno dato vita a un brand che interpreta in maniera autentica ma moderna la tradizione, qui ancora molto sentita: «A San Giovanni a Natale si mangia la pitta ‘mpigliata», specifica Giovanni. «Non c’è panettone che tenga!».
Dalle Dolomiti al mare
Lungo la Penisola il Natale prende ancora altre forme e deliziosi sapori. Ecco alcune tra le specialità da non perdere, e dove trovarle.
Stollen, Alto Adige
Detto anche Christstollen, è un dolce di origine tedesca ormai entrato a far parte della tradizione culinaria altoatesina, a base di uova, burro, farina, cannella, zenzero, mandorle, uvetta e canditi. Le sue origini risalgono al 1400 circa, e all’epoca si trattava di un lievitato semplice e leggero, adatto al digiuno cristiano del periodo dell’Avvento. Col tempo la ricetta si è arricchita, e una versione molto apprezzata – a base di uova, burro, farina, cannella, zenzero, mandorle, uvetta e candita – è quella farcita di marzapane. Si trova nei mercatini natalizi, nei forni e nelle pasticcerie.
Mandorlato, Veneto
In Veneto, oltre al Pandoro, il dolce delle feste natalizie per eccellenze è il mandorlato. Croccante e friabile, la ricetta della combinazione di miele, albumi e mandorle distesi su una sottile cialda di ostia venne perfezionata nel 1852 da uno speziale di Cologna Veneta, da cui oggi prende la denominazione. Ma è da assaggiare la versione di Scaldaferro, torronificio attivo dal 1919 a Dolo (Venezia), in cui la miscela di mandorle italiane tostate, diversi mieli monovarietali, zucchero e albume d’uovo montato a neve viene “posata” a mano nei caratteristici fiocchi.
Bossolà, Brescia
Sorta d’incrocio tra un ciambellone e un panettone, soffice e vaporoso, è il dolce tipico delle festività natalizie a Brescia e dintorni. Le origini sono incerte, e potrebbero essere tanto veneziane quanto più lontane nel tempo e nello spazio: secondo alcuni il nome deriverebbe dal termine celtico bés ‘mbesolàt, serpente attorcigliato, simbolo di rinascita. Delizioso accompagnato da una crema allo zabaione come viene servito alla Trattoria Porteri, si trova in tutte le pasticcerie locali: dalla versione classica di Tacconi a quella firmata da Iginio Massari.
Roccocò, Napoli
Parte del cabaret di “dolci di natale” partenopei assieme a mostaccioli e susamielli, sono ciambelle a base di farina, zucchero, mandorle e pisto (mix di spezie dolci). Di probabile origine conventuale – venivano preparati già nel ‘300 dalle monache del Real Convento della Maddalena –, il nome deriva dal francese rocaille, che indica una conchiglia, o la roccia: questi deliziosi biscotti si trovano sia in versione morbida, con la melassa, che in quella dura (spaccadenti). I più buoni? Quelli de La Masardona, celebre insegna di pizza fritta, preparati secondo la tradizione della famiglia Piccirillo.
Vastedduzzi o Nacatuli, Isole Eolie
Vastedduzzi a Salina, nacatuli nelle altre isole dell’arcipelago (da non confondere con i nucàtoli del resto della Sicilia in cui il ripieno simile è racchiuso da un semplice involucro a forma di S): questi deliziosi dolcetti profumati dagli aromi di mandarini, mandorle e Marsala, sono modellati in forma di cuori, fiori o altro, e decorati da motivi a merletto con un meticoloso lavoro d’intaglio con il tradizionale “pizzicarolo”. A Salina si trovano – oltre che nelle case – al bar Chiofalo, ma la loro fama social si deve a Serena Follone (@sere- namentesalina), giovane isolana che ha ripreso la tradizione di famiglia condividendola con il mondo.