Progetto Eolia a Salina

Le isole dei capperi nel segno della resilienza contadina

In Sardegna e Sicilia una pianta regala fiori e frutti da raccogliere con pazienza.

Marco Maxia sembra un uomo venuto da un’altra epoca. Saldo nella sua Sardegna dopo alcune esperienze all’estero, ha scelto di diventare agricoltore senza averne ereditato il mestiere (suo nonno era pescatore, suo padre operaio in fabbrica). Con un diploma da perito agrario e una passione autentica per la terra, vent’anni fa il quarantottenne ha recuperato alcuni cappereti abbandonati e, nel 2005, ha aperto il primo capperificio della Sardegna. Ancora oggi, la sua azienda agricola è l’unica sull’isola a chiudere l’intera filiera agricola del cappero fino alla trasformazione. Maxia (che si legge Majìa) vive il lavoro con un rigore d’altri tempi: non ha WhatsApp e preferisce inviare le foto dei suoi capperi via posta certificata. Quando risponde al telefono, spesso è a bordo del trattore nei campi di Selargius, dove si trova la sua attività, Il Cappero Selargino, con cui ha recuperato e gestisce circa 600 piante. Da dicembre 2024, il nome di Marco Maxia è diventato ancora di più un riferimento in regione per il riconoscimento del cappero di Selargius come Presìdio Slow Food, un traguardo che sancisce l’importanza di proteggerne la biodiversità, similmente a quanto già avvenuto per il più noto cappero di Salina.

Quella che cresce nell’entroterra cagliaritano è una pianta unica nel suo genere: non striscia come in Sicilia, ma si sviluppa in altezza fino a un metro e mezzo, e il suo bocciolo prima di schiudersi ha un peso specifico inferiore rispetto ad altre varietà, tanto che una volta i capperi qui venivano venduti a volume, come i ceci, e non a peso. Quest’ultima caratteristica ne influenza anche l’uso in cucina: il cappero di Selargius è così delicato che la cottura lo rovinerebbe. Per questo motivo, quello maturato nell’aceto viene aggiunto solo all’ultimo nel coniglio a succhittu, una specialità campidanese inserita nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Sardegna. L’ossessione per i capperi di Selargius ha ispirato anche chef, pizzaioli e persino gelatieri: dal Polpo alla galiziana rivisitato da Cristiano Andreini al ristorante Mos nell’enclave catalana di Alghero alla Cappericciosa di Framento a Cagliari, fino all’impiego del bocciolo fresco, e poi caramellato, nel gelato gastronomico di Aresu, ancora una volta nel capoluogo sardo.

In un’intervista pubblicata su L’Unione Sarda il 17 settembre 2000, Maxia raccontava di aver intrapreso più di un viaggio in Sicilia, e tra i più illuminanti per la sua carriera c’è quello a Pantelleria, per studiare il mondo del cappero nella terra dove da sempre è un business. Esattamente quindici anni dopo, su questa stessa isola vulcanica, Pasquale Bonsignore era nel pieno della sua seconda campagna olearia per Incuso, realtà imprenditoriale e di ricerca apprezzata come marchio di olio e olive. Proprio a Pantelleria, Bonsignore ha incontrato Gabriele Lasagni, umanista emiliano “prestato al cappero” e nipote acquisito di Antonio Bonomo, tra i fondatori de La Nicchia, brand conosciuto per il suo prelibato “oro verde”. Tra i primi a evidenziare il calo di produzione e la mancanza di un’adeguata remunerazione per i braccianti, Lasagni ha contribuito a rilanciare il cappero pantesco, creando nuove prospettive per la sua valorizzazione. Oggi, i due imprenditori che si sono ritrovati a Pantelleria sono soci di D’stilla, il primo progetto della start-up Labo Officine Pantesche, e sui capperi hanno sperimentato su essiccazione, sali aromatizzati e oli, oltre a impiegare ogni parte della pianta (fiori, frutti e foglie). Il risultato è una gamma diversificata di prodotti, che include capperi e cucunci (frutto che al suo interno contiene ancora il seme) sotto sale, foglie sott’olio, granella e polvere, fino a collaborazioni prestigiose come la personalizzazione dei capperi per lo shop di Carlo Cracco e l’esclusiva di Incuso nel mitico vitello tonnato di Diego Rossi in carta da Trippa a Milano.

Storie di territorio, grande capacità artigianale e tutta la magia della fermentazione: praticamente quando si parla di capperi emergono le analogie con un buon vino. Non sorprende quindi sapere che anche tra le Eolie ci sia un’isola, la più verde, dove la specie botanica Capparis spinosa condivide le attenzioni con appassimenti assai simili per l’uva Malvasia. Se chiedete a Nino Caravaglio, viticoltore eoliano, il cappero è un ingrediente imprescindibile: “Ravviva ogni pietanza”, dice sempre. Nella sua cantina a Salina, durante le degustazioni, non manca mai un po’ di paté di capperi. Le sue piante vengono coltivate ai margini dei vigneti, e tutti i dipendenti del vigneron isolano partecipano alla raccolta a scalare, che avviene dalla tarda primavera alla fine dell’estate, esclusivamente a mano e prima dell’alba per evitare il caldo eccessivo. Come da tutta una vita, Caravaglio continua ad alzarsi alle quattro del mattino per staccare i capperi dal ramo (massimo cinque alla volta) prima che sboccino. A ripagarlo dei suoi sforzi, i tanti piatti buoni che ha assaggiato con i suoi capperi. Il più sorprendente? I boccioli fritti a mo’ di popcorn a New York. Quello del cuore? La zuppa di pesce di Gianfranco Pascucci.

Sempre sulla seconda isola più grande delle Eolie dopo Lipari, dove l’agricoltura si regge su due pilastri, la vite e il cappero, più giovane è il progetto enoico di Eolia di Luca Caruso e della compagna Natascia Santandrea. Le piante le hanno trovate rilevando vecchie vigne in giro per l’isola e, partendo da un percorso di restauro conservativo, sono diventati proprietari o gestori di alcuni cappereti che curano con il supporto della forza lavoro locale. Parte del raccolto è donata ai clienti del Signum, resort della famiglia Caruso al quale destinano anche il resto della produzione (per un totale di un paio di centinaia di chili all’anno) che viene affidato alla cucina stellata di Martina Caruso, sorella di Luca: dalla maionese ai capperi presente tra gli strati del Club sandwich eoliano servito al bistrot, fino al gelato al cappero del ristorante fine dining, signature in carta da oltre dieci anni che arriva al commensale come pre-dessert. Un evergreen è anche lo Spicy Capp shakerato da Raffaele Caruso, cugino di Luca e Martina, pensando alle insalate condite con mentuccia e peperoncino; new entry della drink list alla riapertura di stagione del Signum (metà aprile) sarà il Sa-Lima, che fa da ponte tra Perù e Salina usando foglie di cappero e un pisco aromatizzato al peperoncino.

L’isola di Salina, tra profumi di Malvasia e bianchissimi fiori di cappero, offre anche interpretazioni originali e innovative sul tema. L’azienda agricola Sapori Eoliani, oggi guidata da Maurizia Di Lorenzo dopo la prematura scomparsa del figlio Roberto Rossello, confeziona prodotti creativi come la confettura di capperi e i capperi canditi. A sfidare ancora di più la tradizione è anche l’impresa familiare di Virgona che produce una birra aromatizzata ai capperi, Beatrice, unendo l’amaro del luppolo alle note salmastre ed erbacee di questo piccolo bocciolo del Mare Nostrum.

Maggiori informazioni

In apertura: conserve di capperi di Eolia a Salina (ph. Giò Martorana)

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