Melizzano è un piccolo borgo del Sannio Beneventano, circondato da una campagna verde e fertile in cui campi, vigne e oliveti, pascoli e boschi sono intervallati da corsi d’acqua – come i fiumi Calore e Volturno che qui, alle pendici occidentali del Taburno, s’incontrano – e antichi borghi che nascondono inattesi tesori: dalle chiese e gli antichi palazzi medievali di Sant’Agata dei Goti, abbarbicata su un costone di tufo, alle benefiche terme di Telese, le cui acque sulfuree emersero in seguito al terremoto del 1349. Siamo, in realtà, più vicini a Caserta che a Benevento: ma da queste parti i confini sono labili e assecondano più la morfologia che la politica, così come le strade e i tragitti. Basta mezz’ora di macchina dal capoluogo casertano – quasi il doppio, invece, dal moderno ma comodo snodo ferroviario di Napoli Afragola: in entrambi i casi si passa sotto le arcate dell’imponente Acquedotto Carolino che portava alla Reggia borbonica e al borgo di San Leucio – per raggiungere Melizzano, che in passato fu luogo di vedetta e guarnigione, mentre le Forche Caudine protagoniste di un’epica battaglia della seconda guerra sannitica non sono molto distanti.
Eppure, una volta arrivati sembra di aver percorso molta più strada, di trovarsi quasi in una dimensione parallela dove le ore scorrono più lentamente e si trova il tempo per passeggiare tra viuzze e boschi, godersi i panorami e l’aria pulita e dilungarsi a tavola piacevolmente. Si comprende così la scelta di Angelo D’Amico – chef campano nato a Vico Equense ma le cui radici familiari sono proprio in questo territorio – di tornare qui per dedicarsi al suo progetto, dopo un percorso professionale che lo ha visto al fianco di Enrico Derflinger all’Eden di Roma, Anthony Genovese a Palazzo Sasso di Ravello, Carlo Cracco ai tempi di Cracco Peck e a lungo con Antonello Colonna a Labico, oltre alle parentesi estere a Oxford – al Le Menoir di Raymond Blanc– e a Parigi all’Arpège di Alain Passard. Con un curriculum così, le proposte e le possibilità di certo non mancavano (incluse quelle sulle montagne del Nord Italia) ma lui ha preferito tornare nella sua terra.
Non è un caso, infatti, che per il bel locale avviato nel 2016 – una trentina di coperti comodamente ospitati nelle ampie e luminose sale total white, che dal giovedì alla domenica ospitano una clientela sia locale sia in arrivo da più lontano – abbia scelto il nome di Locanda Radici, a sottolineare lo stretto legame con il territorio e un senso di ospitalità e accoglienza ampio (anche se il ristorante non ha camere per la notte: ma a poca distanza c’è la bella Tenuta Pascarella, struttura improntata alla sostenibilità ambientale grazie a soluzioni come l’impianto geotermico e i pannelli fotovoltaici, che è anche la sede di eventi e cerimonie gestiti con la collaborazione gastronomica di D’Amico).
Accanto ad Angelo, e a coccolare gli ospiti in sala c’è il fratello minore Giuseppe, maître e sommelier. A lui si devono le scelte e i suggerimenti enologici da una carta ricca di spunti, a cominciare dalle realtà della zona che spaziano dai grandi numeri della vicina Cantina di Solopaca – cooperativa agricola tra le più antiche della regione – a piccole chicche come i vini de I Pentri, piccola azienda di Castelvenere incentrata sul minimo intervento. Ma pure a belle realtà come Fontanavecchia a Torrecuso dove Libero Rillo, insieme al padre Orazio e al fratello Giuseppe, dà vita a belle interpretazioni personali di Falanghina del Sannio e Aglianico del Taburno che ben raccontano le potenzialità e le evoluzioni dei due vitigni, così come a interessanti versioni di Piedirosso, Fiano e Coda di Volpe. Mentre l’ottimo extravergine versato al tavolo per accompagnare i deliziosi pani è frutto delle olive di proprietà, lavorate nel frantoio di famiglia.
Il contributo di Giuseppe, però, non si ferma alla sala e alla cantina. Laureato in ingegneria energetica e fin dall’inizio interessato a fondere la sua competenza scientifica con quella del fratello, ha approfittato della pausa forzata dovuta alla pandemia per sviluppare un modello matematico-analitico per valutare l’impatto ambientale di ogni piatto proposto sul menu: un interessante tentativo per rendere la sostenibilità un concetto meno aleatorio e concretamente misurabile, pur se ancora da affinare completandolo con i valori legati alla produzione, e non solo al trasporto, da parte di tutte le aziende fornitrici che dovrebbero entrare a far parte del progetto garantendo trasparenza totale, ma già validato dall’analisi e dal seguente lavoro di ricerca svolto dal Dipartimento di Agraria – Università degli Studi di Napoli Federico Il che sarà presentato alla CWTC24, la conferenza dedicata al Culinary and Wine Tourism in programma a Vienna il prossimo maggio. Messo a punto raccogliendo anche i dati di altri dieci ristoranti di colleghi tra Napoli, Roma, Milano, Firenze e Bologna, e basato su un “sistema ristorativo” da massimo 80 coperti, punta a fornire un metodo di calcolo matematico della sostenibilità – ambientale ed economica – di ciascun piatto in menu, monitorando e riducendo dove possibile costi, consumi energetici ed emissioni di CO2 dalla produzione della materia prima fino alla tavola e analizzando, oltre appunto alla provenienza e qualità dei prodotti, i processi di trasformazione che avvengono in cucina.
Grazie ai dati forniti dal modello, per migliorare le proprie performance Locanda Radici ha deciso di adottare metodi di trasformazione più efficienti (ad esempio sostituendo le funzioni dell’essiccatore con quelle di altre fonti di calore), di ridurre al massimo gli sprechi e di privilegiare tecniche di cottura diretta e prodotti per lo più locali – cosa che però, come sanno bene i fratelli D’Amico, non sempre è garanzia sufficiente di maggiore sostenibilità e che rappresenta appunto il fattore su cui lavorare ulteriormente. Ma c’è da dire che gran parte delle materie prime vegetali – dalle erbe aromatiche, spesso protagoniste dei piatti, alle verdure su cui è incentrato anche il menu degustazione vegetariano che affianca gli altri tre percorsi: Al Buio, Mediterraneo e Radici – arrivano direttamente dall’orto adiacente al ristorante.
Lo step successivo è stato anche individuare un modo efficace per comunicare ai clienti i risultati e con essi tutto il lavoro alle spalle, individuando un indicatore sintetico (definito Rendimento di Eco-Sostenibilità, o RES, dato dal prodotto dei tre valori calcolati per ogni piatto – Rendimento economico di Trasformazione, Risparmio di Energia Primaria di Trasformazione ed Emissioni evitate di CO2 – diviso per 100) visualizzato sul menu attraverso un simbolo, ovvero un trifoglio che assumere diverse colorazione: verde scuro per le pietanze con un RES superiore al 30%, dunque le più “virtuose”; verde chiaro per le portate con un RES tra il 20%-30% e arancione per i piatti il cui RES è al di sotto del 20%.
Nell’attuale menu invernale, di arancione non c’è traccia. Mentre hanno il trifoglio verde scuro i piatti che poi, all’assaggio, si rivelano più convincenti. A cominciare dallo squisito Coniglio in olio cottura alla cacciatora – che nobilita questa carne poco diffusa nel fine dining con una consistenza interessante e una presentazione raffinata, nella foto in apertura – e da quello che è un signature di D’Amico, l’avvolgente Uovo croccante (da un allevamento a terra, all’aperto, che si trova nel territorio del Geo Park Taburno) con tartufo nero del Taburno e mozzarella di bufala di un micro-caseificio del Sannio; mentre il pangrattato per la panatura è realizzato anche con i grissini in eccesso o con qualche difetto estetico.
Lo stesso vale per il Risotto al blu di capra, zafferano e Falanghina del Sannio Dop, espressione della passione dello chef per questo piatto – fondamentale, qui, l’esperienza con Cracco – e della sua bravura a bilanciare elementi difficili, affiancando alla spinta dell’erborinato del Matese la nota dolce ma intensamente aromatica dello zafferano coltivato sul Taburno, e quella lievemente acidula del gel di vino bianco frutto dello studio con Vincenzo Mercurio, enologo consulente della vicina Cantina di Solopaca.
Ma è soprattutto lo splendido Agnello Laticauda in quattro cotture – trifoglio verde scuro anche in questo caso – a entusiasmare, mostrando come la tecnica e l’attenzione alla circolarità e agli sprechi possano nobilitare nel modo migliore una grande materia prima come la carne della razza locale “dalla coda larga”: nel piatto principale il gustoso carré arrosto, da mangiare con le mani senza ritrosia, accompagnato dal tenero filetto e da un carciofo; accanto, disposti sul tavolo in cocotte e pentolini, arrivano la pancia confit, la squisita crocchetta di spalla e coscia con menta e pecorino da mangiare in un boccone, il “soffritto” (interiora e parti meno nobili cotte in un intenso e piccante sugo rosso, secondo la tradizione partenopea) e l’abbuoto: cuore, fegato e pancia avvolti dall’intestino e insaporiti da aglio e peperoncino. Un boccone insieme potente, arcaico ed elegante.