Negli ultimi anni tu hai avuto, dal tuo osservatorio privilegiato di storica produttrice di Gattinara e di attuale presidente del Consorzio, la possibilità di misurare i progressi dell’Alto Piemonte. Com’era la situazione dieci anni fa, e com’è oggi?
Forse dovremmo risalire ancora più indietro, diciamo a trent’anni fa. All’epoca le quantità erano forse superiori a oggi ma la qualità, fatte salve alcune aziende, era decisamente da migliorare. Non si prestava sufficiente attenzione alle pratiche in vigneto, ai tempi di vinificazione e alla pulizia in cantina. Vent’anni fa la situazione era abbastanza simile. Dieci anni fa si notava già un notevole miglioramento, o perlomeno più aziende dimostravano più attenzione ai processi di filiera, ai tempi di raccolta, alle rese produttive e alle estrazioni. Ma era pressoché assente la fierezza di appartenere a un territorio unico. Oggi credo di poter affermare che la qualità sia cresciuta in modo esponenziale. Sono nate molte aziende giovani, molti stanno davvero cercando di lavorare bene e finalmente si coglie anche un po’ di orgoglio alto- piemontese. Certo c’è ancora da fare, ma quali sono i territori vinicoli che possono vantare solo eccellenze?
Parallelamente, com’è cambiata la percezione dei vini nordpiemontesi, in Italia e all’estero?
Moltissimo direi. Trent’anni fa se la mia casa vinicola non era l’unica a esportare negli Stati Uniti, era affiancata da un paio di aziende al massimo. All’epoca sul mercato italiano erano presenti quasi solo Gattinara e Ghemme. Le altre Doc si vendevano solo in regione, o comunque nel nord Italia. Dieci anni fa “Alto Piemonte“ era un termine noto solo ai grandi esperti di vino. Ora, nonostante i numeri ancora contenuti, sempre più appassionati identificano e apprezzano i nostri vini, anche fuori dei confini nazionali. Tranne i piccolissimi o le aziende neonate, quasi tutti ora esportano, anche con percentuali importanti sul fatturato. In Italia è sempre più facile trovare qualche bottiglia della nostra zona nelle carte vini.
Quali sono i punti di forza dei vini del nord Piemonte?
Innanzitutto l’ampia e differenziata offerta produttiva: bianchi, rosati, rossi semplici, rossi importanti e complessi. Poi il buon rapporto qualità/prezzo, che ancora vale quasi ovunque nel territorio, anche in relazione ai vini importanti.
Aggiungerei la piacevolezza nella beva, l’eleganza dei tannini, la sapidità, la longevità, la grande capacità di accostarsi ai cibi; e – ultimo ma primo – la grande personalità. Criticità?
Forse i nostri piccoli numeri. Le bottiglie in circolazione sono ancora poche e, di riflesso, è ancora scarsa la riconoscibilità dei nostri vini per il grande pubblico.
Pensi che nella crescita di questi prodotti conti il pluricitato cambiamento climatico?
Per alcune zone meno vocate o per vigneti in zone più fresche sicuramente ha un peso: penso ad esempio alle Valli Ossolane. Il cambiamento climatico ha in generale contribuito a ridurre le acidità e ad ammorbidire alcune componenti tanniche che, per alcuni vini, in passato erano di approccio gustativo difficoltoso. Per le zone più vocate invece sta influendo di più sulle conduzioni dei vigneti, stravolgendo i tempi medi di lavorazione e spingendo a modificare alcune pratiche usuali fino al passato recente.
Non credi che uno dei maggiori elementi di attrazione dei vini dell’Alto Piemonte sia – con tutte le differenze tra un Bramaterra e un Sizzano, tra una semplice Vespolina e un potente Gattinara, eccetera – il fatto che condividono una grande facilità di beva?
Ne sono certa, questo è sicuramente uno dei fattori che più ci contraddistingue.
Infine, c’è per te il rischio di snaturare il carattere di questi vini se la domanda dei mercati che amano rossi più “carnosi” e morbidi dovesse aumentare?
Bella domanda. Abbiamo superato indenni questo rischio diversi anni fa, quando già il mercato chiedeva vini tutti muscoli e morbidezza. Un profilo all’interno del quale noi sicuramente non ci collocavamo e non ci collochiamo. Io spero fortemente che le aziende non si facciano attirare da miraggi e facili scorciatoie, perché snaturare i nostri vini procurerebbe forse un risultato nel breve periodo su alcuni mercati, ma un dannoso e non quantificabile effetto boomerang in seguito.
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