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Manuel Agnelli: emozioni, ritmo e talento, la ricetta perfetta contro la banalità. Sul palco come a tavola

Sapete che il frontman degli Afterhours è anche un appassionato gastronomo? A raccontarcelo è proprio lui in questa lunga intervista.

Chi lo ha conosciuto come giudice del programma televisivo X Factor, cui ha partecipato in più edizioni dal 2016 al 2021, ne avrà probabilmente apprezzato la grande competenza musicale e il rigore professionale che si accompagnava alla capacità di scorgere talenti pronti a esplodere, come nel caso delle band Måneskin e Little Pieces of Marmelade o di Casadilego. E forse, lasciatosi incuriosire dal personaggio, ne avrà seguito il poliedrico percorso successivo e parallelo che lo ha visto alternarsi tra studi televisivi e radiofonici (alla conduzione del programma TV Ossigeno su Rai 3 per le stagioni 2018 e 2019, e di Leoni per Agnelli su Radio24 dal 2022), palchi e studi di registrazione con il suo primo tour e album da solista (Ama il prossimo tuo come te stesso, 2022) e teatri, come protagonista di Lazarus, adattamento italiano del musical ideato e voluto da David Bowie a cura del regista Valter Malosti.

Ma chi invece – come buona parte della redazione di Food&Wine Italia – ne ha seguito per oltre un ventennio le gesta musicali come frontman della band Afterhours, tra le poche vere espressioni del rock italiano, trovando voce per la propria rabbia, disillusione e (barlumi di) speranza nelle strofe delle sue canzoni diventate per molti una sorta di “anti-inni” generazionali, sa che Manuel Agnelli è molto di più di un rocker: autore di testi e musiche, è anche un raffinato pianista e conoscitore di musica classica, un lettore colto, uno scrittore (con I racconti del tubetto, 1999, e Il meraviglioso tubetto, 2000), un produttore musicale, un ideatore di festival musicali (con il glorioso progetto itinerante Tora! Tora!, dal 2001 al 2005) e co-titolare di una libreria tematica con bar e spazio per musica ed eventi: Germi, “Luogo di Contaminazione” aperto insieme alla moglie Francesca Risi, al compagno di band Rodrigo D’Erasmo e all’amico Gianluca Segale nel 2019 a Milano, per offrire un po’ di luce in un’epoca di “buio culturale” con quella che chiama “leggerezza calviniana”.

A sorpresa, però, è anche un gourmand: non di quelli dell’ultima ora, sulla scia della moda onnipervasiva della cucina, ma scafato, esigente e curioso. Tanto che a marzo scorso è salito – affiancato dalla chef Chiara Pavan, altra sua grande fan – su un palco diverso dal solito: quello milanese del congresso internazionale di cucina d’autore Identità Golose che, per la sua diciannovesima edizione, ha scelto come tema “Non può esistere innovazione senza disobbedienza: la rivoluzione oggi”. E chi meglio di Manuel Agnelli – che in Quello che non c’è canta “La chiave della felicità è la disobbedienza in sé” – poteva incarnare questo messaggio tra il palco e la tavola?

Manuel, come nasce il tuo rapporto con la cucina d’autore?

Sono un grandissimo curioso e da sempre appassionato, grazie soprattutto a mio padre: quando ero giovane e abitavamo vicino ad Abbiategrasso, ci portava spesso a mangiare all’Antica Osteria del Ponte a Cassinetta di Lugagnano. Lì ho imparato ad apprezzare cosa vuol dire avere determinazione e idee in cucina, unendo creatività e semplicità: un talento, quello di Ezio Santin, non celebrato abbastanza da Abbiategrasso.

Hai fatto studi in agraria. Se non fossi diventato un musicista, cosa saresti stato?

Forse un giardiniere. Mio padre era nato in campagna, l’adorava e si divideva tra il suo lavoro come consulente fiscale e quello nei campi con il nonno. Mi hanno trasmesso anche questa passione, e oggi faccio spesso giardinaggio di notte, come dicono i REM. I veri abitanti di questo pianeta sono le piante, come spiega nei suoi libri Stefano Mancuso: ho amato molto La nazione delle piante.

Torniamo alla cucina. Quanto è importante per te, quello che arriva in un piatto? Cosa cerchi nell’esperienza in un ristorante?

Per me è stimolante, talvolta può anche dare suggerimenti, influenzare il mio lavoro. Io mi commuovo sempre davanti al talento in qualsiasi campo, nel vedere qualcosa creato con grande intuizione e passione. Non mi commuovono tanto le idee in quanto tali ma la loro applicazione, quello che si sprigiona.

Come definiresti, o come individui, il talento?

Per me sta nell’energia vitale che si è capaci di trasmettere, poggiando soprattutto sulla sincerità. Se si fanno le cose solo per compiacere è la fine, mentre è bello cercare un dialogo sincero con le persone. A mio parere è importante non solo commuovere ma anche stimolare, accettando di essere divisivi, di non piacere a tutti.

Qualche esempio, nella ristorazione?

Beh, partirei proprio da Chiara Pavan: la sua cucina non è facile ma Venissa, dove sono stato un paio di volte, ha un’identità fortissima. Proprio lei, poi, mi ha consigliato altri locali da provare a Venezia e ho trovato una situazione molto interessante: c’è una generazione di ragazzi che sta creando una scena inedita e cambiando l’idea della città come trappola per turisti, puntando su un’altissima qualità. Si tratta di indirizzi molto diversi tra loro, dai bacari ai ristoranti stellati, e spesso sono appunto divisivi ma sono posti dove io mi sono emozionato. Come è successo da Local, ad esempio: è un bel progetto basato sull’entusiasmo vero di chi ci lavora, che non punta solo al successo ma anche a raccontare la passione, a trasmettere energia. Ecco, questi sono stimoli, è vita. È quello che cerco nell’arte, in generale. E poi, a Venezia ho trovato molta cura anche per l’aspetto uditivo.

Proprio a Identità Golose Massimiliano Alajmo ha ricordato come l’udito sia il senso più sottovalutato nell’esperienza gastronomica e ha proposto un’esperienza “estrema” che annulla i rumori esterni per concentrarsi su quelli della masticazione del cibo. Per te quanto conta?

Mi resta impresso il ricordo di grandi “magnate” con amici e colleghi in cui si cucinava in maniera grottesca e la musica era fondamentale per completare l’esperienza “energetica”. Al ristorante il sottofondo musicale è sicuramente importante ma non sempre indovinato: spesso si ascolta musica da ascensore, o brani rinascimentali che appesantiscono troppo. Il casino mostruoso di certi posti, poi, è una violenza che distrae dall’esperienza mentre la musica è fatta anche di pause e silenzio, che comunque è suono. Non ci avevo mai riflettuto in maniera razionale, ma è piuttosto avveniristico e coraggioso associare il silenzio al mangiare, anche se poi è quello che facevano già i frati.

Come valuti invece l’estetica, il servizio, i tempi di un pranzo o di una cena?

È importante avere un ritmo, come nella scaletta dal vivo. È un po’ il senso stesso del concerto: non si tratta di un’esibizione di capolavori in sequenza, come in una galleria d’arte, ma è quasi un rito messianico creato anche dal susseguirsi di ritmi diversi. Lo stesso che deve esserci fra un piatto e l’altro. Vale anche per il servizio: puoi mangiare piatti meravigliosi ma se il ritmo è troppo serrato o tropo dilatato perdi il passo, proprio come in una performance. Da Local, per esempio, è stata perfetta. Comunque cerco sempre di visitare almeno una seconda volta un ristorante prima di dare un giudizio: per esempio sono tornato di recente da Aimo e Nadia, dove ero stato prima del passaggio (ad Alessandro Negrini e Fabio Pisani, ndr), e mi ha convinto altrettanto: gli spaghettoni con il cipollotto me li ricordo ancora adesso, ho provato a rifarli a casa ma è stato un disastro!

A proposito di disobbedienza: è davvero la chiave imprescindibile dell’innovazione?

No, è solo una delle possibilità. Per me disobbedienza vuol dire ascoltarsi, fare quello che davvero si vuol fare, ma anche non dipendere da quel che accade intorno per cercare invece un linguaggio proprio, che rende personali, dà un’identità forte e precisa, aiuta ad avere un ruolo. Lo stesso vale se ci si affida totalmente alla tecnologia per innovare, come se fosse quasi una religione. È importante non dimenticare perché e come stiamo facendo una cosa, e in alcuni casi questo vuol dire anche disobbedire alla disobbedienza, o non inseguire l’innovazione a tutti i costi. Senza farsi condizionare nemmeno dal successo, che può diventare una gabbia di cui si rimane prigionieri. A quel punto è importante sapersi rimettere in gioco, disobbedire al proprio stesso progetto, aprirsi a collaborazioni nuove: ma per far questo ci vogliono una sicurezza pazzesca e una identità molto forte.

Vale per la cucina come per la musica?

Certo. Anzi mi sembra che negli ultimi anni questo approccio sia molto più forte nell’enogastronomia, dove da parte dei cuochi c’è la tendenza ad avere una personalità distintiva molto forte. Nella musica invece sta succedendo il contrario: ormai si lavora con le squadre di produzione, ci sono tanti prodotti che somigliano l’uno all’altro. In questo, Morgan ha ragione.

Dopo essere stato giudice a X Factor, nel 2017 sei stato coinvolto anche in una puntata di Hell’s Kitchen come giudice accanto a Carlo Cracco. Com’è stata l’esperienza?

Ci tengo intanto a chiarire che non sono un esperto in materia, sono solo uno che ha girato e mangiato tantissimo. Molte cose sono simili nel giudicare piatti e musica, c’è una grande componente di personalità: la stessa canzone fatta da due persone diverse dà un risultato molto differente e così anche per un piatto, pure a parità di tecnica e ingredienti. Poi c’è anche la componente creativa, che conta: l’innovazione non è inutile, non voglio sminuirla, è un mezzo per poter raggiungere un risultato. Carlo Cracco poi è un maestro non solo in cucina ma anche nel raccontare in televisione: anche lui è divisivo, può stare antipatico ma cerca il dialogo con il pubblico e sa essere molto sincero.

A proposito di giudici TV: c’è chi ha fatto un paragone tra te e Davide Scabin a MasterChef, definendolo “empatico ma anche rigoroso e inflessibile” come te. Ti ci ritrovi?

Non conosco Scabin abbastanza bene ma per quel che mi riguarda sono diventato empatico con il tempo. All’inizio, soprattutto in un Paese bigotto, tradizionalista e borghese come l’Italia di quei tempi, il mio ruolo era di rompere con la tradizione mentre per me compiacere qualcuno equivaleva a dirgli che lo consideravo un coglione. Quando ho capito perché stavo facendo musica in un certo modo e ho individuato la mia vera identità, è stato salvifico: essere “contro” è diventato molto meno importante, ho cercato di trovare un linguaggio comune senza imporre il mio. Resta per me il dovere di essere me stesso ma dialogando, accettando anche che non si sia d’accordo. Ecco, questa accettazione non l’ho più vissuta come frustrante, mentre prima mi sembrava una sfida, una battaglia su cui mi sono fossilizzato. Anche se rifarei tutto, anche gli errori. E oggi rivedo un po’ alcune cose in mia figlia o in altri gruppi di giovani: l’ostilità verso gli altri e il riconoscersi invece nella propria comunità.

In un’altra tua splendida canzone, Bianca, condanni la banalità. Vale anche in cucina?

È importante non sedersi su quello che già conosciamo, che vediamo intorno a noi o meglio che ci fanno vedere. In questo Internet, che era nato con lo scopo di farci conoscere tutto, ha spesso anestetizzato la curiosità, ha portato a una ricerca superficiale che per me è uno dei grandi mali di oggi. In cucina, essere banali vuol dire sedersi su cose già fatte, farle senza amore, soprattutto quando c’è un talento ma non viene espresso. Per me la chiave di tutto, al di là dell’innovazione e della tecnica ma persino del progetto stesso, è il talento, che è il segno più grande di energia e di vita. Se manca, magari volontariamente perché si è persa la passione, si cade nella banalità.

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Foto di Hugo Weber

 

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