MAURO ULIASSI

È l’ultimo 3 stelle Michelin italiano, in ordine di proclamazione. Una conferma di maturità in un lungo percorso, tecnico e appassionato, che da sempre celebra la dirompente forza del mare

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Mauro Uliassi è un uomo molto amato. Anche la sua cucina, premiata con le 3 Stelle Michelin, è una cucina molto amata. Per lui e la sorella Catia («L’altra metà del cielo») dare felicità agli altri, farli star bene è una attitudine spontanea, stampata in testa sin da bambini. La loro educazione sentimentale ha infatti un nome: il bar dei Bartolacci. Non si può percorrere la storia degli Uliassi e del loro ristorante senigalliese senza fermarne lo scatto iniziale, l’infanzia e l’adolescenza vissuti nel bar di famiglia dove si è definito il segno di una peculiare capacità di accoglienza. Si diverte, Mauro, a ripercorrerne l’epopea: «Il bar è stato una palestra formidabile. In semiperiferia, su una statale, era il tipico bar di paese e di transito, aperto dall’alba alla notte, dove passavano tutti, dal farmacista al medico, dall’idraulico allo spazzino, dal pittore al contadino, tutto il mondo. Mio padre era la mente commerciale mentre mia madre oggi la definiremmo “la pierre”. La Bianchina era una donna piena di gioia, cantava ballava e sorrideva sempre. Era la figlia di Vittorio Bartolacci. Mio nonno era il classico personaggio dell’immediato dopoguerra, un uomo bello, potente, grosso, dotato di grande fiuto, lo chiamavano “il Jean Gabin del Cesano”. E con un’aura particolare: tutto quello che toccava prendeva il suo cognome. Così la Bianchina era la figlia di Bartolacci, noi eravamo i nipoti del Bartolacci e persino mio padre era il marito della figlia di Bartolacci. Mio padre non ha avuto un cognome sino a quando non abbiamo aperto il ristorante… Il talento di mia madre era quello di saper conquistare l’ospite con il sorriso. Tu entravi e lei: “buongiorno bella signora”, alla quarta volta era normale che ti salutasse con un “ciao cocca”. Entrava nel cuore di tutti e questa cosa ce l’ha comunicata. 

Siamo sempre stati orgogliosi di come i nostri genitori fossero amati. Attivi, solidali, felici, ai nostri occhi erano dei vincenti, dei genitori speciali e questo ci ha dato sicurezza: ogni volta che ci accingevamo a fare qualcosa, io e mia sorella abbiamo sempre avuto l’intima certezza che ci sarebbe riuscita bene. Anche quando ho deciso di aprire il ristorante ho avuto la percezione netta che quello fosse il posto giusto. Lì, sul porto, dove il fiume incrocia il mare. Il porto è nella mente di tutti, è l’alfa e l’omega, è l’archetipo. Noi siamo nel punto focale della città, il fiume che la taglia in due, sulla destra la spiaggia, a sinistra il porto canale. Circondati dall’acqua. Il sole ti nasce davanti e declina dietro le colline. La vista spazia ovunque e la percezione dell’energia è immensa. È come vivere ogni stagione allo spasimo. A volte quando arriva il temporale mi spingo sulla punta del molo e mi riempio di immensità. È una cosa pazzesca, anche un po’ pericolosa, volendo, ma lì avverto una forza senza uguali. Mi capita anche di fare gli ordini dalla spiaggia, con un whatsapp raggiungo i miei fornitori che stanno in barca e i pesci è come vederli, come tirarli su. Ci sono momenti, quando entro al ristorante e guardo fuori, che ancora mi commuovo. Mi ripeto che sì, sono proprio un uomo fortunato». Anche nella scelta del gruppo di lavoro, Mauro è stato guidato da un certo intuito e dalla formidabile scuola di umanità del bar. «Mi ha insegnato a imbastire le relazioni, a capire le persone, le loro esigenze. Ogni persona ha un fascino, è un mondo da scoprire». Ultimo arrivato, ad affiancare in sala la zia Catia, è il figlio Filippo, anche questo un piccolo capolavoro di integrazione. «È cresciuto nel ristorante, come noi nel bar, e ha il talento delle persone che si sono formate in un ambiente pubblico. Oltre al palato eccezionale, la dote più importante per uno chef. Ma dopo qualche anno in cucina, ha scelto la sala perché, dice, io sono un padre un po’ troppo ingombrante».

 L’affiatamento con il nucleo storico del brain sailing è totale. A cominciare da Mauro Paolini, oggi marito di Catia, Luciano Serritelli, detto “Bunny”, Michele Rocchi (che ha deciso di lavorare solo sei mesi l’anno, per il resto va in giro per il mondo con il suo camper a pescare carpe),Yuri Raggini, il rotisseur, Andrea Merloni agli antipasti e Alessio Orlando chef tournant. Un equilibrio di gruppo non casuale. Frutto anche di quell’armonia che Mauro coltiva ogni giorno con una meditazione di venti minuti, mattina e pomeriggio, prima del lavoro: «Mi fa essere più quieto e sereno, meno emotivo nelle scelte e nelle reazioni, riesco a godermi meglio le cose che mi succedono. La negatività esce, le tensioni si spengono. Lo faccio da anni, mi è indispensabile. Quando il ristorante è chiuso mi alzo alle quattro di mattina e non c’è nulla di più magico che guardare l’alba sul mare dopo la meditazione. Mi resetta la mente». La fascinazione per le discipline orientali è arrivata negli anni Settanta nel suo periodo hippie («Ma ti ricordi quando i Beatles, Mia Farrow, Donovan nel 1968 andarono nell’ashram dello yogi Maharishi sul Gange?»), quando un’intera generazione si invaghì delle filosofie zen. In questi ultimi anni è scattato invece l’interesse per il regista David Lynch che è anche uno dei più affermati guru americani di meditazione trascendentale. «Me ne sono entusiasmato e dal 2014 pratico questa disciplina ogni giorno. Sarà una coincidenza ma negli ultimi quattro anni abbiamo avuto successi importanti. Ha portato bene». La meditazione soccorre anche nel passaggio cruciale al nuovo status di 3 stelle Michelin «quando succede più di quello che hai previsto. I miei amici tristellati mi avevano avvertito che saremmo entrati in una dimensione completamente altra con tante ansie in più». Non perdere il contatto con la realtà è il mantra che Mauro si recita ogni giorno: «Stai in campana». Il buon senso ha portato alla decisione di mantenere fermi i prezzi, 180 euro per un menù degustazione. 

«Siamo tra i 3 stelle meno cari del mondo, ma la partecipazione popolare è stata così potente, quasi avessimo vinto la finale dei mondiali – sono venuti tutti, l’idraulico, la parrucchiera, capisci, la parrucchiera! – che noi vogliamo essere con loro. Man mano vedremo che cosa significa, è un percorso, devi imparare anche a essere un 3 stelle. Per ora lo pensiamo come un regalo, una benedizione. Il fatturato è cresciuto e ci siamo regalati due giorni in più alla settimana di pausa, era una promessa che avevo fatto ai miei: “Se arrivano le tre si riposa. E possiamo permetterci nuovi investimenti con persone in più che si aggiungono alla squadra”». Quaranta giorni l’anno, a ristorante chiuso, sono dedicati solo alla ricerca di nuovi piatti che compongono il menù Lab (che sta appunto per “laboratorio di ricerca”). Ma il processo creativo non termina qui. Il menù viene costantemente corretto sul campo. «Io personalmente assaggio ogni piatto almeno trenta volte, ma è con i clienti che i piatti prendono vita. Non basta contarcela tra di noi, ci sono tremila variabili. Bisogna essere flessibili, sapersi adattare anche ai diversi gradi di materia prima. L’estate per esempio non regala i pesci migliori, sono più grassi, le femmine gravide e le gravidanze sfiniscono. Il nostro compito è fare in modo che nessuno se ne accorga. L’eccellenza è dentro di te, nella tua testa. Di fatto il laboratorio non chiude mai, il nostro stile si modifica continuamente, è un percorso che non sappiamo bene dove ci porterà ma sappiamo di avere l’opportunità di non essere mai gli stessi. Abbiamo introiettato un metodo, è diventata la nostra vita, è il nostro habitus mentale». Un metodo che viene dall’incontro, esattamente vent’anni fa, con i fratelli Adrià, che cambiarono non solo il destino di Uliassi ma anche quello della storia della cucina. «Un sasso che ha mosso grandi onde, e noi siamo tutti ancora dentro quel moto ondoso. È esplosa una grande libertà e ogni nostro piatto è figlio di quella libertà». 

La poesia della memoria

Missione del Lab è tirar fuori i sapori archiviati nella memoria collettiva ma sistematicamente cancellati da un’industria che punta alla serialità, all’omologazione per piacere a tutti. Questa la chiave della cucina uliassiana: spingere su una strada che risvegli, faccia risuonare vibrazioni dimenticate. «Una volta, quando entravi nelle case di campagna ti arrivava alle narici qualcosa di indecifrabile, un mix di tre odori fondamentali, quello di mosto di vino, di cera d’api e di fumo di camino, odori che ossidandosi impregnavano le pareti. È qualcosa di ancestrale che noi ci portiamo ancora dentro. Chi non ha mai mangiato un salume appena irrancidito? Per noi è come costruire delle madeleines legate al mare, alla terra, ai fossi». Ecco allora che dei pesci si utilizzano interiora, teste, occhi, fegato, ali, dove si racchiudono gli umori decisivi. Ecco che si lavora sui gusti estremi del rancido e persino del putrefatto, come il sentore delle alghe in decomposizione che ti arriva sulla spiaggia o del sangue della selvaggina in frollatura. Prendi allora l’Ostrica alla contadina. Il grasso del ciauscolo, sciolto a bassa temperatura, conferisce quella nota di rancido smorzata dal gel di carpione, a trasformare il boccone in una bomba di acidità indimenticabile. 

«Non a caso quando Ferran Adrià serviva il jamon di Joselito lo scaldava leggermente proprio perché tirasse fuori quel caratteristico sentore di rancido». O prendi l’Anguilla alla marinara: leggermente affumicata con legni di ciliegio e di noce, grigliata e accompagnata da marmellata di bergamotto, brodo concentrato di mandarini e arance e pane secco al nero di seppia, con la nota amara di olive carboncella cotte sotto la cenere e un bouquet di insalatine in cui spiccano gli aromi di pino limonato e di finger lime (ogni “semino” una sferzata acida). Oppure l’Ossobuco cucinato nel brodo di vongole. Nel brodo, ridotto, si monta il pil pil di trippe di baccalà completando poi con la gremolata. O la Canocchia à la coque con la salsa acida di alghe, un modo per valorizzare le canocchie quando d’estate sono piene di uova che risultano sempre un po’ cerose e che invece, trovata la giusta temperatura di cottura (al vapore per pochi minuti), diventano di una cremosità inaspettata. Vengono abbinate a una salsa acida di uova di coregone emulsionate con olio di alghe, una sorta di maionese che ricorda la salsa bernese, arricchita di olio al pepe ed estragon. Intingi la canocchia nella salsa e ti esplode tutto in bocca. L’Agnello fuori testa è un inno alla poesia della memoria. Degli animali, nutriti a pascolo e non a cereali, si utilizzano solo le teste che vengono lasciate per due ore in forno a 80 gradi sotto sale. Si spolpano quindi di tutte le parti molli – lingua, cervello, occhi… – con le quali vengono composti gli spiedini, impanati poi di erbe, grigliati e accompagnati da un pane croccante che si ispira all’antica tradizione contadina del pane imbevuto in un triplo brodo di pecora (un brodo concentratissimo fatto di tre ripassi, rinfrescati ogni volta da nuova carne e verdure). Nella parte grassa che affiora da questo brodo si raccoglie tutta l’essenza dell’animale. Una spennellata sugli spiedini e… ah, perché non son io coi miei pastori? 

 

Fotografie di Alberto Blasetti