Alla domanda ‘Che cos’è la cucina?’ si potrebbero dare svariate risposte. Tante quanti sono coloro ai quali tale interrogativo potrebbe essere rivolto. La risposta che qui interessa prendere in considerazione è quella che ritiene la cucina una sorta di scatola nera della società, che registra i gusti e i significati che le persone assegnano agli alimenti che comprano, preparano, consumano. Una scatola nera che tiene memoria non solo dei modi di mangiare in uso nelle diverse epoche storiche e nei diversi angoli del mondo, ma anche degli schemi mentali, delle convinzioni e delle idiosincrasie, che nel cibo trovano il loro speciale hard disk. Ma anche la cartina al tornasole. Guardando infatti ai modi di mangiare propri delle differenti comunità umane si è in grado di capire quali siano le loro ossessioni, le loro aspirazioni, i loro modi di distinguere il buono dal cattivo, il desiderabile dall’inappetibile. Gusti e cucina, cioè, non sono solo questioni che hanno a che vedere con le papille fungiformi, il trigemino, l’ippocampo, la corteccia orbito-frontale, i canali ionici, i ricordi, ma anche e soprattutto con i modi in cui i cibi riflettono, confermano o contestano, i modelli culturali in atto.
La zuppa di cicerchie è buona o cattiva da mangiare? Risposta: dipende se è buona o cattiva da pensare! Ossia dal fatto che la si assapori in un qualsiasi fine settimana d’autunno a Pescasseroli (buona), oppure nel novembre 1940 a Roccacerro (cattiva). Così il pancotto con cime di rapa è buono o cattivo da mangiare a seconda che lo si degusti al Reale Casadonna di Castel di Sangro (buono), dove questo piatto della cucina povera assembla tutta una serie di qualità che rinviano ai concetti di tradizionalità, territorialità, sostenibilità e pratiche responsabili del riuso, oppure in una casa contadina di Tufillo a inizio Novecento (cattivo). Allo stesso modo la pastina glutinata può essere buona o cattiva da mangiare a seconda che venga propinata ai bambini nell’attuale epoca del gluten free, sugar free, salt free, fat free, caffeine free, lactose free o low carb (cattiva), oppure negli anni del boom economico in piena apoteosi dell’additivazione alimentare (buona). Va da sé che il discorso coinvolga anche le pennette alla vodka e panna, buone se assaporate nei rampanti anni ‘80 dello scorso secolo, tutti protesi alla globalizzazione e allo sradicamento territoriale, ma cattive se assaggiate in un oggi carico di esaltazioni identitarie e di rivalse localistiche. Per tornare alla domanda di partenza, si potrebbe dire che la cucina è sicuramente molte cose.
È innovazione e tradizione. È identità e contaminazione. È scienza e arte. È etica e dietetica. È gusto e nutrizione. È ricordo e damnatio memoriae. Dipende da come la si concepisce e, soprattutto, da chi è chiamato a dare risposta al quesito. Se a farlo fosse Ferran Adrià, direbbe che la cucina è tecnologia applicata ai fornelli. Se fosse Jean Anthelme Brillat-Savarin, che è la scoperta che migliora il gusto. Per Carlo Petrini sarebbe qualcosa da concepirsi in termini di buono, pulito e giusto, per José Manuel Fajardo la capacità di riempire lo stomaco con l’immaginazione. Se a pronunciarsi fosse Anne Plantagenet direbbe che la cucina è pura sensualità, Alain Ducasse che è una lunga storia d’amore. Claude Lévi-Strauss, invece, con molta astrusità di pensiero, ci spiegherebbe che è un linguaggio nel quale una società traduce inconsciamente la sua struttura. Chi mai avrà ragione? Forse tutti, forse nessuno. O forse Giuseppina Petti da Oratino, detta nonna Peppinella, la quale affermava con tutta la saggezza e la sicurezza di chi ha visto scorrere dietro di sé l’esistenza di ben quattro generazioni, che la cucina è «na cosa che sa da fa’, se se vo’ vive». Esprimendo così il concreto e poco idealizzato punto di vista di chi tutti i giorni della sua vita, per centouno e rotti anni, ha avuto a che fare con i fornelli lontano dalle esaltazioni della memoria, dalle interviste e dai protagonismi televisivi.