Non il colore scuro del legno, con sfumature rossastre, bensì quello della carne cotta al barbecue, la stessa con cui Matteo Faenza ha avviato il business di Mogano dopo il Covid. Era il 2021 quando questa insegna ha visto la luce, per poi evolversi in un più ambizioso progetto ristorativo, parallelo all’attività brassicola di famiglia, Ritual Lab, premiatissimo birrificio a Formello, alle porte di Roma. Alla fine del listino delle loro birre artigianali veniva menzionato proprio quel pulled pork, che ancora oggi si può gustare nella taproom. Mentre Valerio e Giovanni, i fratelli di Matteo, si occupano di produrre e distribuire la bevanda luppolata, Matteo ha inseguito il suo sogno di cuoco, un destino che forse era già scritto in quel libro autografato dal celebrity chef sudamericano Gastón Acurio che uno dei due fratelli gli riportò dopo un viaggio in Perù, Paese dove tra l’altro ha lavorato una volta raggiunta la maggiore età.
Sono trascorsi circa dieci anni da quell’esperienza a Lima, con un percorso che ha incluso anche un passaggio in Cile e poi in Spagna per un master al Basque Culinary Center, prima del ritorno in Italia. In Giappone, invece, non ha mai lavorato, eppure molte delle sue preparazioni guardano proprio l’estremo Oriente, e anche verso tutto quel continente tanto lontano che ha saputo interpretare a modo suo, lasciandosi ispirare dal territorio da cui proviene, il Lazio. Curiosamente, in questo esercizio ci sono molte affinità con il mondo della birra, in primis per l’uso delle fermentazioni, approfondite in cucina grazie a collaborazioni virtuose – una su tutte, quella con Carlo Nesler per tutto ciò che riguarda i prodotti fermentati con legumi locali – e sperimentazioni home-made. Durante l’aperitivo, lo chef al pass serve un infuso analcolico di luppolo (frutto di una delle tante sinergie con il birrificio di famiglia), ottenuto con il dry hopping, tecnica che Matteo ha preso in prestito dal mondo della birra. A questo shot vengono accompagnati tre snack (nell’ordine: cracker di banana e parmigiano, ceviche di Fassona e involtini primavera), e non è da escludere che andiate via senza aver assaggiato la colatura di alici alternativa: stagionata oltre tre anni, non emana odori forti grazie all’assenza di interiora e all’uso del koji.
I veri gourmand forse noteranno un dettaglio della cucina: è la stessa dove per anni ha cucinato Roy Caceres, almeno fino al 2021, anno della chiusura di Metamorfosi. Anche all’ingresso, che dà direttamente sull’unica sala di Mogano, si respira un déjà-vu, con gli arredi e la cantina che un tempo appartenevano sempre allo stellato guidato dallo chef colombiano, quasi fosse un omaggio al nome stesso del locale, in segno di un profondo cambiamento. Oggi, l’ambiente accoglie anche opere d’arte provenienti dalla collezione privata del padre dello chef. La bravura di Matteo sta anche nell’aver evitato richiami didascalici al mondo brassicolo, inserendone però alcuni elementi in modo brillante e pragmatico. Un esempio è la pagnottella a lievitazione naturale: nell’impasto è presente una piccola quantità di trebbie, ovvero lo scarto della birra, ingrediente che aiuta la fase di fermentazione.
Nella scena gastronomica italiana, dove la birra artigianale fatica ancora a ritagliarsi un proprio spazio nell’alta ristorazione, Mogano sfrutta il suo potenziale suggerendo un beer pairing con le etichette “della casa”. Ha schiuma abbondante e una carbonazione finissima la loro Ritual Ipa, che accompagna sia il pane spalmato di burro alla cipolla caramellata sia la mozzarella espressa, realizzata direttamente al tavolo, dalla filatura allo shock termico nel ghiaccio, prima di essere impiattata con pomodorini ripieni, polvere di pomodoro croccante, olio al prezzemolo e gazpacho. Lo stesso luppolo usato nell’infuso di benvenuto si ritrova nella Kush, una American Ipa dai sentori tropicali e agrumati, che sostiene l’idea di ramen dello chef, con miso di orzo prodotto nel viterbese, una pasta all’uovo tagliata al coltello, un diaframma di manzo marinato in stile coreano (come fosse un bulgogi), soia locale, olio di sesamo, taccole, mais, uovo di quaglia e brodo di pollo anziché di maiale.
Il menu da cinque portate si conclude con una composta di limone che declina l’agrume in diverse consistenze, dal succo alla polpa, fino alla scorza, avvolta in un guscio di burro cacao e cioccolato bianco. Se l’aspetto del dessert vi sembra familiare, non sbagliate: è identico al soggetto dei murales che decorano le pareti esterne del birrificio, realizzati dall’artista spagnolo Coctail. L’esperienza si chiude con la piccola pasticceria, servita su un piattino colmo di malto, lo stesso usato nella Papanero, la Russian Imperial Stout prodotta insieme a Voodoo Brewery Company in Pennsylvania, tra i massimi esperti mondiali della produzione di questo stile. Questa è una birra da meditazione che è possibile acquistare anche nello shop. A fine pasto, fatevi portare nel caveau delle Papanero, dedicato all’invecchiamento in barrique con botti di primo ordine, come quelle di Cognac XO e di Laphroaig. Questa è sicuramente la più pregiata delle produzioni di Ritual Lab, attualmente considerato il miglior birrificio d’Italia.