Senigallia

Moreno Cedroni, il futuro all’improvviso

Lo chef della Madonnina del Pescatore festeggia i quarant’anni di attività (e i suoi 60).

Era il 1984 quando un intraprendente ventenne, concluso l’Istituto Nautico di Ancona, prendeva il timone non di una nave, ma di un ristorante sul lungomare di Senigallia, prima in sala e poi definitivamente ai fornelli. Quel giovane sarebbe diventato uno dei più innovativi chef italiani e quell’insegna sulla spiaggia di Marzocca, Madonnina del Pescatore, avrebbe poi preso due stelle Michelin, la prima nel 1995 e la seconda nel 2006. In questi quattro decenni di storia Moreno Cedroni ha sempre seguito la rotta della creatività e della curiosità: ha inaugurato una romantica palafitta bianca e blu nella baia di Portonovo, il Clandestino, dove ha inventato il Susci (con la c) all’italiana. Ha aperto un chiosco prêt à manger, Anikò, che propone salumeria di mare. Ha sperimentato i metodi di conservazione del pesce, creando una linea di lattine con le migliori materie prime. Ha investito su un laboratorio di ricerca e sviluppo e un orto marino, di fronte al ristorante, al servizio della comunità. Sempre al suo fianco, da quando varcò la porta della Madonnina del Pescatore nel 1991, Mariella Organi, compagna di vita e di progetti. «Non me ne sono accorto, il futuro è arrivato all’improvviso», confessa questo splendido sessantenne.

Quarant’anni la Madonnina, sessant’anni tu. Come siete cambiati?

Ho messo più a freno la mia impulsività. Quando ho iniziato a cucinare c’era l’idea, ma a volte mancava l’equilibrio e la profondità che oggi ho raggiunto con la maturità, con i tanti viaggi che ho fatto e con la conoscenza di altre tradizioni. Quello che sto vivendo è uno dei momenti migliori della mia carriera. La Madonnina è sempre più bella e leggera, ogni anno mi sembra di aprire un ristorante nuovo, è cresciuto il menu, la quota di ricerca, la varietà dei piatti.

Il momento più importante?

Quando nel 1992 mi sono spostato dalla sala alla cucina, iniziando il mio percorso di cuoco, e nel 2006, quando è arrivata la seconda stella.

Quali sono i piatti più significativi della tua storia?

Vado per epoche. La prima fu quella delle “padelle” (dal 1984 al 1994 circa, ndr), le mettevo al centro del tavolo e i clienti si servivano da soli. Il piatto simbolo di quell’epoca furono gli Scampi con la polenta. Del secondo periodo (1995-2000), quello delle ricette con un ingrediente e l’integrazione di una salsa vegetale, scelgo il Tagliolino con granceola e piselli. Dal 2000 ho avuto un approccio più concettuale, ragionavo su ricette esistenti, prendevo spunto da altri riferimenti e li trasformavo utilizzando il pesce, come nel caso del Bounty di seppia o della Costoletta di rombo. Tra i piatti del nuovo menu della Madonnina del Pescatore, che si chiama Il Viaggio di Marco Polo, dico il Fusillo con cuore di piccione, lumache di mare e tofu di mandorla, dedicato a Pechino, perché esprime tutta la profondità del gusto.

Con te, da 16 anni, c’è Luca Abbadir.

Luca ha un ruolo fondamentale, condividiamo la sperimentazione e la creatività, insieme a un gruppo di lavoro molto forte. Ognuno aggiunge qualcosa reciprocamente, ognuno stimola l’altro. Nel 2018 abbiamo investito su The Tunnel, uno spazio che nasceva con le celle di frollature. Qui abbiamo convogliato tutti i nostri strumenti d’avanguardia al servizio della cucina, perché il futuro sta nella ricerca. Il valore aggiunto? I clienti possono visitarlo e capire il lavoro che c’è dietro a ogni creazione.

Come nascono i tuoi piatti?

A dicembre io e Luca iniziamo a immaginare la direzione del nuovo menu. Dedichiamo un intero mese al processo creativo, a porte chiuse: pensiamo una serie di luoghi, di temi, di ingredienti, basandoci in parte su un timone da seguire. Poi inizia la pratica sulla materia, sulla manipolazione e sulla cottura. Tanti anni fa c’era più casualità e istinto, oggi più razionalità ma senza pregiudicare l’estro. In tutto questo processo è però sempre il gusto a guidare le scelte, anche quello dei nostri ospiti. Quando il menu viene svelato, per un mese o due subisce delle variazioni sulla base del feedback dei clienti.

Nel 1999 facesti un corso da Ferran Adrià, lo chef catalano del leggendario El Bulli. Qual è il ricordo di quella esperienza?

Con me c’erano anche Mauro Uliassi, Agata Parisella e Paolo Teverini, tra gli altri. Trascorremmo solo una settimana a Cala Montjoi ma in quel poco tempo Adrià mi diede gli strumenti per sviluppare il potenziale e il talento che avevo dentro. Non scorderò mai uno dei suoi piatti, il Cervello di coniglio, anemone di mare e aneto. Adrià era avanguardia pura, ma anche una persona spontanea e un grande comunicatore.

Il fine dining è un concetto destinato a tramontare?

No, non morirà mai. Però noi per primi dobbiamo capire che la chiave è far divertire i clienti, mettendo da parte il nostro ego. Il tema non è il prezzo, perché i costi di questa tipologia di cucina vengono recepiti dai clienti tanto quanto un biglietto di uno spettacolo teatrale, ma la capacità di offrire un’esperienza unica e memorabile.

Come descriveresti il lavoro in sala di tua moglie Mariella e il vostro rapporto?

Ha un tocco non formale, leggero, competente, unico. Ha sempre quella delicatezza che a volte manca in questo lavoro, sia con gli ospiti che con il nostro team. Dove non arrivo io arriva lei, e viceversa. Ci miglioriamo sempre grazie al confronto.

Parlami di Senigallia e di Uliassi.

Senigallia ha testimoniato la mia crescita, è la città giusta per maturare lentamente, senza ansia da prestazione. Ricordo che quando aprii, nel 1984, andavo a comprare i blocchetti di ricevute fiscali nella tipografia di Mario Giacomelli, il grande maestro della fotografia. Senigallia è cambiata tanto, quarant’anni fa non c’era nulla mentre oggi è una destinazione gastronomica internazionale dove puoi mangiare benissimo, a qualsiasi livello di spesa. Io e Mauro abbiamo alzato l’asticella e abbiamo spinto altri colleghi a seguire la strada della qualità. Tra noi due c’è una sana e bellissima competizione, probabilmente saremmo stati diversi l’uno senza l’altro. Mauro è un amico ed è il mio alter ego che mi porta a fare molto meglio di quanto farei da solo.

Cosa rappresenta per te il Clandestino?

Dal 2000 è il luogo che mi consente di esprimermi liberamente e di spingere sulla creatività senza avere paura di sbagliare un piatto. Qui ho portato l’idea del Susci all’italiana, nata nel 1998 alla Madonnina, perché non se ne poteva più di mangiare pesce crudo nel limone o aceto e volevo fare qualcosa di nuovo che racchiudesse un’idea forte, un intreccio tra ingredienti nostri e del mondo che desse carattere al morso. Fuggo al Clandestino una volta a settimana ed è sempre emozionante. Tra i tanti menu creati in questi anni, sono molto legato a “Susci figlio dei fiori” perché fu uno dei primi a fare la differenza, incominciavo a osare. Non ho perso quella poesia, che si è arricchita di contenuti, come nel nuovo percorso “Susci Rosa”, dedicato a grandi donne della storia, da Virginia Woolf a Indira Gandhi, da Ella Fitzgerald a Coco Chanel.

E ora che succede? Quali saranno i nuovi progetti?

Nessun nuovo progetto, ho già dato. Ho ridotto le consulenze e voglio consolidare i miei locali, far crescere le persone che lavorano con noi, concentrarmi al 100% per mantenere questo livello. Spero che la creatività non mi abbandoni mai.

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Foto di Brambilla-Serrani

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