Che fare di tonnellate di rifiuti organici? Abbiamo veramente bisogno, in cucina, di montagne di gadget, troppo spesso inutili e lasciati a languire nelle profondità più oscure delle nostre credenze? È possibile passare da un modello di produzione alimentare dominato dalle monoculture e dall’uso intensivo di fertilizzanti e pesticidi, ad approcci più sostenibili e favorevoli alla biodiversità? E, soprattutto, come farlo senza demonizzare la tecnologia? Queste sono alcune delle domande che la mostra “Food: Bigger Than the Plate” (per la quale sono stato consulente esterno) cercherà di porre ai visitatori del Victoria and Albert Museum di Londra dal 18 maggio a metà novembre. La mostra cerca di affrontare le grandi questioni del sistema alimentare mondiale senza però dimenticare la prospettiva dei consumatori, sia in quanto individui sia come appartenenti a gruppi sociali (la famiglia, la città, la nazione). Tale prospettiva punta a connettere esperienze concrete con tematiche di ampio raggio quali il commercio internazionale, la globalizzazione e la sicurezza alimentare. Perché una mostra sul cibo in uno dei maggiori musei di arte e design del mondo? Prima di tutto, perché il cibo si sta affermando come uno dei temi principali di discussione politica contemporanea, a livello mondiale.
La produzione, la distribuzione, il consumo, e l’eliminazione (o piuttosto il riutilizzo) degli scarti alimentari determineranno il nostro futuro. Era inevitabile che questi temi attirassero l’attenzione del design, che dal punto di vista della teoria e della pratica sta allargando i propri obiettivi e aggiornando i propri metodi, occupandosi non solo di oggetti e spazi, ma anche di esperienze, processi, servizi, e sistemi. Benché molti designer non si trovino a loro agio in questa transizione, cercando invece di mantenere il settore in canoni più tradizionali, l’applicazione del punto di vista del design ai sistemi alimentari può generare prospettive originali ed innovazione. Certo, non è semplice mettere il cibo in mostra. Fino a pochi decenni fa, il museo in quanto istituzione culturale tendeva a essere un luogo che favoriva oggetti tangibili, permanenti, e confacenti a idee ben precise su cosa fosse la Cultura con la “c” maiuscola, quella seria, quella che si studia. Nonostante sia indubbiamente difficile esibire idee e processi o puntare sull’intangibile, i musei stanno sempre di più abbracciando la sfida dell’impermanenza e della transitorietà (stimolati peraltro dall’evoluzione dell’arte, che spesso va nella stessa direzione). E dato che il concetto che il cibo sia cultura e identità è ormai abbastanza accettato, il passo è breve per arrivare alla musealizzazione dei processi produttivi e di consumo alimentare.
Ci sono precedenti importanti: nel 2012-2013 l’American Museum of Natural History di New York ha ospitato la mostra “Our Global Kitchen: Food, Nature, Culture”, che esplorava appunto le connessioni fra cibo e identità culturali, e la loro espressione in tradizioni culinarie che nella storia hanno dato forma a sistemi alimentari molto diversi, ciascuno con impatti specifici sulla salute e sull’ambiente. Un paio di anni dopo, nel 2015, è stata la volta di “Food: Dal Cucchiaio al Mondo” al MAXXI di Roma, una mostra molto stimolante che ha trattato temi come il corpo e la casa, per poi allargarsi a riflettere sulla città, il paesaggio, e il globo. Ovviamente Expo a Milano nello stesso anno ha offerto spunti molteplici per guardare al cibo in maniera diversa, più critica ma allo stesso tempo esplorativa e creativa. “Arts & Foods: Rituali dal 1851” alla Triennale di Milano ha segnato un passo importante in questo senso. Queste mostre indicano l’emergere di una tendenza molto differente da quella mostrata da vari musei permanenti del cibo. Molti si concentrano su un prodotto specifico, come nel caso del museo del pane di Ulm, in Germania e quelli del cioccolato a Barcellona e del pan di zenzero a Toruń (Polonia).
A volte tali musei, pur offrendo interessanti prospettive storiche attraverso oggetti, foto e ricostruzioni, funzionano da promozione per prodotti specifici, come nel caso del sistema museale istituito nella provincia di Parma con esposizioni individuali dedicate ai tesori gastronomici della zona, dal Prosciutto di Parma al Parmigiano Reggiano, al Salame Felino e al Culatello di Zibello. In altri casi, il museo appartiene a un’azienda che lo trasforma in strumento di pubblicità: uno dei casi più famosi è quello del museo della Coca-Cola ad Atlanta. La stessa impostazione presenta, ad esempio, il museo della vodka polacca di Varsavia, sostenuto dalla vodka Wyborowa. Il cibo può diventare il cuore di veri e propri parchi dei divertimenti, come nel caso dell’HersheyPark in Pennsylvania, tutto dedicato all’omonima cioccolata, e del Shin-Yokohama Ramen Museum in Giappone. In questi casi, l’aspetto culturale e di riflessione è ovviamente totalmente assorbito dalla finalità ludica e d’intrattenimento. Da questo punto di vista, FICO a Bologna presenta un modello diverso e nuovo: se da un lato l’obiettivo è vendere prodotti, dall’altro l’enorme struttura permette ai visitatori di farsi un’idea anche sui processi produttivi, a partire da quelli agricoli per arrivare a quelli artigianali e industriali. La presenza di piccole aziende a fianco di quelle di dimensioni medie e grandi offre l’opportunità di comprendere varietà e differenze che esistono nel sistema alimentare italiano. Inoltre, ristoranti e chioschi di cibo di strada permettono proprio quella dimensione sensoriale che è impossibile in altre situazioni.
Essendo l’esperimento relativamente recente, è ancora presto per trarre conclusioni sul modello espositivo, che è stato pensato per attrarre grandi numeri di ospiti provenienti da tutto il mondo. Il coinvolgimento fisico dei visitatori è una questione importante anche per i musei e le mostre di cibo con aspirazioni non unicamente commerciali. Ad esempio, la mostra itinerante Regine & Re di Cuochi, la cui prima tappa ha avuto luogo nella Palazzina di Caccia di Stupinigi nel 2016, cerca di conseguire questa finalità utilizzando tecnologie multimediali e interattive, insieme a documenti, materiale fotografico e oggetti. Inevitabilmente, nell’impossibilità di assaggiare piatti e ingredienti, l’attenzione dei visitatori si concentra sui processi creativi e sugli chef in quanto personaggi sempre più rilevanti nella cultura contemporanea. Il Museum of Food and Drink a Brooklyn sta sperimentando con formati e contenuti al fine di aumentare la partecipazione sensoriale dei visitatori. In una delle prime mostre è stata resa disponibile una macchina che permetteva di creare odori mescolando i prodotti chimici che le industrie alimentari utilizzano per accentuare aromi e sapori. Il museo spesso ospita mostre che hanno anche un carattere di performance. Nel novembre 2018, è stata la volta di un evento sulla cucina polacca in cui i partecipanti hanno potuto toccare e assaggiare oggetti , con installazioni che si concentravano sui suoni e sugli odori. Nel frattempo, gli ospiti potevano osservare il lavoro di una chef per poi gustarne i piatti a cena.
Ovviamente, eventi del genere sono limitati a numeri ridotti di partecipanti e il costo è relativamente alto, generando problemi a livello di accessibilità economica. Ciononostante, la performance è una dimensione importante del cibo in mostra, specialmente quando non richiede la partecipazione diretta dei visitatori che rimangono in quel caso fondamentalmente spettatori e non attori. Sapori e odori, materiali e oggetti, spazi ed esperienze, coinvolgimento e riflessione sono le variabili-chiave per il successo della musealizzazione e dell’esposizione del cibo in generale. Il fenomeno è stato esaminato nel volume “Food and museums” (Bloomsbury, 2016), in cui le esperte di museografia Nina Levent e Irina D. Mihalache hanno raccolto saggi che esaminano vari aspetti della questione, dal rapporto con l’arte al mangiare nei musei. Siamo solo all’inizio di esperimenti che, al di là di tutto, indicano come il ruolo del cibo sia cambiato, da elemento economico e necessità per la sopravvivenza a espressione di cultura, innovazione e creatività. Come affermato dall’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, il cibo deve essere buono non solo da mangiare, ma anche da pensare.
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