Con un laconico “non so cucinare a casa” era iniziata la sua quarantena. E così – con un nuovo (e conclusivo) cartello, come ci aveva abituati durante l’ultimo mese – ha voluto dare la notizia che in molti stavano aspettando: “torno in cucina”. Quella di Spazio Niko Romito Roma Bar e Cucina, più precisamente, che dallo scorso giovedì 16 aprile ha iniziato a offrire a domicilio ai romani, attraverso la piattaforma Deliveroo (a patto di trovarsi entro i 4 km da Piazza Verdi), i suoi prodotti più iconici, dal pane alle bombe dolci e salate al pollo fritto, dai prodotti della prima colazione ai menù della cena, quello della tradizione e quello vegetariano.
Lo chef abruzzese del Reale, tre stelle Michelin, ha scelto la strada dell’ironia in questo periodo di inattività forzata causa emergenza Covid-19, con una serie di cartelli, nati spontaneamente dopo un servizio al Tg3 regionale, che hanno spopolato sui social. E non perché ci fosse molto da stare allegri, con 105 dipendenti in cassa integrazione e un’incertezza (quasi) totale sul futuro prossimo di una complessa impresa di ristorazione. Intanto, però, la riaccensione dei forni del laboratorio Pane, a Castel di Sangro, e il debutto del delivery nella Capitale sono un segnale importante.
«Era un bel po’ che non stavo in cucina dalle 9 alle 23 – spiega sorridendo Romito – e non mi ricordavo fosse così stancante. Ho ragionato con la mia squadra e ho capito che avevamo tutte le competenze e l’esperienza per partire con il progetto delivery. Questo mi ha permesso di iniziare a revocare la cassa integrazione ad alcuni dei miei ragazzi – spiega Romito – ma stiamo comunque soffrendo tantissimo. Sono fermo con quasi tutte le attività, dal Reale alle scuole ad Alt. Ho paura del futuro prossimo, come molti, e di non riuscire a tutelare il mio gruppo. È difficile capire se il tuo modello di ristorante, con le restrizioni, possa essere ancora sostenibile. Paradossalmente mi preoccupano proprio locali come Spazio o Alt, il cui successo era anche nella convivialità, nel sano assembramento, nella condivisione. Sono luoghi molto italiani in questo senso. Potranno ancora funzionare? Ci sarà timore tra il pubblico?».
Com’è andato il servizio di delivery in questi primi giorni?
«Meglio delle previsioni, con numeri interessanti già dal terzo giorno. Ha risposto bene la nostra clientela di quartiere, quelli che ormai erano abituati a venire a prendere il pane o a fare colazione da noi. E molti stanno arrivando dalla piattaforma. Prima dell’emergenza stavo già studiando da tempo la ristorazione delivery, ero affascinato dalle dark kitchen, dai laboratori che nascono solo per vendere prodotti per la consegna a domicilio, con costi di gestione molto più bassi. Il pane, le bombe e il pollo fritto sono tre prodotti ideali in questo senso. Sono anni che lavoro sul concetto di replicabilità e facevamo già molte consegne proprio con Spazio e Alt. La nostra forza sta anche nel packaging, con contenitori studiati per ogni prodotto dopo diversi stress test per capire come il tempo incide sulla qualità del cibo durante la consegna a domicilio».
La diversità e la forza circolare del gruppo aiutano?
«Molto. Ho lavorato a lungo con gli ospedali (per il progetto Intelligenza Nutrizionale, ndr) nella gestione di grandi numeri con precotture e semilavorati. Molte delle soluzioni arrivano dalla ricerca nella cucina del Reale. Il carciofo, ad esempio, che viene cotto in anticipo, lavorato in atmosfera modificata, condito e che possiamo finire di cuocere quando arriva la comanda. Così un semilavorato può essere declinato in diverse preparazioni, dal carciofo fritto servito da Spazio alla versione che viene consegnata a domicilio. Il lavoro che faccio da anni sul pane oggi mi consente di servire pagnotte calde nel raggio di 4 chilometri».
Dunque il delivery può essere una delle soluzioni alla crisi?
«Il delivery, da solo, non può sostenere un ristorante classico. A patto di avere un modello già funzionante, può invece aumentare il fatturato perché i costi non sono molto più alti, nonostante le piattaforme trattengano una buona percentuale dagli scontrini. Non va considerato come un extra da fare in modo superficiale, però, perché ha un impatto forte in termini di reputazione e tantissime persone sono pronte a scrivere feedback spietati. Entri a casa della gente e devi stare ancora più attento. Serve essere scientifici, organizzare le tempistiche, studiare i piatti e il menu, fare attenzione alle temperature. La scelta di mangiare a casa aumenterà sempre di più, questa pandemia non ha fatto altro che accelerare un processo inevitabile anche in Italia e soprattutto in Lombardia, che incide con la percentuale maggiore sul fatturato italiano del settore. Al momento, è l’alta ristorazione a non essere ancora adatta al delivery. Serve studiare canali di distribuzione diversi. Ma può essere un’occasione unica per studiare un modello moderno, intelligente, italiano, che rispetti la qualità delle materie prime e tenga conto delle esigenze nutrizionali del cliente».
E quale sarà, quindi, il destino del fine dining?
«Continuerà a esistere e funzionerà soprattutto l’esperienza dell’altissima ristorazione. Altrimenti sparirebbe anche l’alta moda, la gioielleria, il lusso, in altre parole l’Italia. Guai a pensare che la gente voglia solo tornare a modelli di ristorazione vecchi di 50 anni. Il ritorno alla semplicità non vuol dire banalità ma significa meno sovrastrutture, grande ospitalità e contenuti che meritano ancora di più il viaggio, frutto di profonda ricerca e innovazione. Il cliente sarà sempre più attento. Chi soffrirà, invece, sarà la ristorazione improvvisata, senza un pensiero e senza un’identità, un valore che non è determinato dal prezzo di vendita».
Diversi addetti ai lavori, nelle ultime settimane, hanno storto il naso nei confronti dei grandi chef che si stanno rimettendo in gioco anche con il delivery.
«Credo che ognuno debba comportarsi in base alla propria sensibilità e alla propria attività ma mi pare che a volte ci sia un pregiudizio ideologico rispetto a cosa dovrebbe e soprattutto non dovrebbe fare un cuoco con tre stelle Michelin. Anche quando anni fa iniziai a parlare di format replicabili o quando poi ho firmato il menù di un ospedale alcuni colleghi storsero il naso. Io ho aperto un ristorante su una statale, per me ogni modello è interessante da studiare e un cuoco con i suoi ragionamenti può creare modelli più democratici. Per me è una grande soddisfazione raggiungere con il mio pane le case di tante città, portare con il delivery la mia ricerca gastronomica a prezzi accessibili, mi sembra un’operazione culturalmente importante. Anche una mensa aziendale può essere gestita da un grande cuoco, vuol dire fare davvero ristorazione ed è uno dei motivi per cui ho aperto la mia scuola di formazione. Non è un caso che uno dei miei piatti che ha avuto più successo è il pollo fritto: un piatto semplice, che però si porta dietro tutta l’esperienza e la conoscenza del Reale».
Dopo la riapertura delle cucine di Spazio cosa succederà nell’immediato futuro?
«Stiamo organizzando il servizio di drive-in per Alt, che mi sembra l’evoluzione naturale per un locale nato sulla statale abruzzese. Appena possibile partiremo con un’app dedicata: ordini e passi a ritirare con la macchina. Non serve a niente restare fermi e dire che non ce la faremo: la creatività può aiutarci».
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