Brodo

Non è il solito brodo

Prodigiose estrazioni che diventano protagoniste di grandi piatti.

Profumato e confortevole più o meno intenso nel colore ma sempre impeccabilmente limpido, il brodo – che sia di carne, pesce o verdure, e le possibilità non si esauriscono qui – è un vero distillato di sapore, capace di estrarre dalla materia prima prescelta gusto e sostanze nutritive per compiere il “miracolo gastronomico” del trasformare l’acqua in un liquido (ri)generativo. Ingrediente invisibile ma fondamentale di tanti piatti, dal risotto alle salse che accompagnano arrosti e bolliti come la pearà o la gravy anglosassone, è anche il comfort food per eccellenza, come ogni nonna insegna a qualsiasi latitudine, ideale per risollevare lo spirito quanto il corpo. Mentre nella tradizione francese e in quelle asiatiche rappresenta non solo un’insostituibile fonte di sapore ma pure una sorta di eredità spirituale e tangibile, tramandata di generazione in generazione sobbollendo perpetuamente sul fuoco.

Ma chi lo ha detto che il brodo debba per forza rimanere in secondo piano in cucina? Se nelle nostre tradizioni regionali non mancano ricette che lo elevano a degno comprimario – dai tortellini o passatelli dell’Emilia Romagna alla zuppa pavese o alla fregula sarda –, sono molti gli chef che ne fanno oggetto di ricerca gastronomica, indagando tecniche e impieghi innovativi per aggiungere “strati” di sapore in forma liquida. Pensiamo agli “assoluti” vegetali di Niko Romito – nei cui menu trovano ampio spazio infusi e brodi, sotto varia forma – che ne ribaltano la preparazione partendo non dall’acqua fredda ma dalla polpa cotta, centrifugata e filtrata per estrarne al massimo l’essenza. Mentre da Agli Amici, in Friuli, Emanuele Scarello rende omaggio alla specialità gastronomica di Godia servendo come benvenuto un avvolgente “brodo” fatto con le bucce (essiccate e poi tenute in infusione nell’acqua calda e salata) delle patate usate per gli gnocchi: il risultato è un infuso brillante e profumato, cui viene aggiunto un rametto di rosmarino: «Il profumo delle patate arrosto e il calore di un tè!», commenta lo chef.

Tra quanti lo mettono al centro del proprio la- voro, un posto d’onore spetta ad Andrea Berton che, fin dall’apertura del suo ristorante milanese, nel menu degustazione “Non solo Brodo” ne scandaglia le molteplici espressioni dall’antipasto (ad esempio nel Brodo di totani e kumquat con totano arrosto, crema di broccoli e cavoletti di Bruxelles) al dessert, come nel Brodo di cioccolato attualmente accompagnato da un “toscanello” di cacao e da banana e caramello: per ottenere il liquido ambrato e deliziosamente profumato, lo chef di origini friulane abbatte e lascia decantare a zero gradi il composto di acqua e cioccolato al 70%. Berton combina la lezione “classica” di Marchesi, l’esperienza in Oriente che gli ha aperto la mente verso questa preparazione e l’innovazione tecnologica. Ma, per realizzare il “brodo perfetto” – limpido, intenso, elegante – condivide un consiglio facilmente applicabile a casa: l’ingrediente protagonista, ben caldo ed eventualmente arrostito per esaltarne il gusto e aggiungere una nota di brace, va bagnato con del ghiaccio o dell’acqua fredda, facendo poi sobbollire, per estrarre al massimo il sapore. «L’idea di utilizzare il brodo come valore aggiunto dei piatti, rendendolo protagonista per mostrarne la modernità, nasce con l’apertura del ristorante. L’obiettivo è aggiungere intensità e ottenere una concentrazione maggiore dell’ingrediente principale», spiega. Così ad esempio alcuni brodi vengono versati nel piatto in tavola a completare la mise en place o serviti come bevanda, come il brodo di agnello servito in tazza con una spruzzata di grappa spray Nonino a impreziosirne la parte aromatica. E i piatti compongono un percorso armonico in cui carne e pesce si alternano ad esempio ai legumi freschi primaverili o anche a formaggi e salumi, come nel Brodo di prosciutto crudo, merluzzo sfogliato con pane croccante e rapanelli.

A Le Calandre, Massimiliano Alajmo firma l’avanguardistico Brodo Oro, in cui un brodo di guance di vitello – che non compaiono più nel piatto, come in una prima versione – profumato da zafferano e liquirizia viene impreziosito dall’oro alimentare, in ironico contrasto con l’essenzialità “monacale” della portata. Per lo chef veneto a dominare in questo caso (e in generale quando si parla delle «estrazioni purissime diluite con tentativi abbastanza estremi» al centro della sua sperimentazione) è il senso dell’olfatto, che funziona da veicolo per un viaggio nel passato come nella famosa “madeleine di Proust”: «Il profumo è rapido e ti rapisce, l’olfatto è il senso che attraversa in maniera radicale la parte emotiva, non tanto la parte razionale, per cui è quello che determina l’aspettativa, l’intensità del momento, l’abbandono di sé», racconta.

Pure Gianluca Gorini, cresciuto – tra Marche e Romagna – a cappelletti in brodo, lo considera un tratto distintivo della sua cucina: «Nel corso degli anni ne abbiamo declinato l’utilizzo per sottolineare il sapore dei risotti, o servendolo in purezza tutto l’anno e calibrando temperature di servizio e aromaticità: in estate lo proponiamo anche freddo, aggiungendo le note di freschezza delle erbe, mentre in inverno scelgo funghi, tartufi, radici o bacche». Sono celebri i suoi passatelli in brodo di verza, in cui ricrea – senza scimmiottarla ma riflettendo sulle similitudini – la sensazione umami del brodo di carne unendo la parte tostata dei semi di zucca e quella fermentativa della verza, messi sottovuoto e passati nel forno a vapore e poi arricchiti da una riduzione di soia a dare ulteriore profondità gustativa. Il passaggio sottovuoto – in questo caso a freddo – è alla base anche del brodo di pecorino di fossa che avvolge i raviolini di fave, per estrarne l’aromaticità particolare, fino a ottenere un’”acqua” dal gusto intenso ma elegante e nitidissimo.

Per Nikita Sergeev il brodo a L’Arcade un mezzo per dare una sfaccettatura diversa al piatto, soprattutto quando non per forza è necessario aggiungere. Servire ad esempio il Cannellone zafferano e croste di Parmigiano privo del suo infuso di speck, zafferano e cipollotto, che si sorseggia dal bicchiere, non darebbe al boccone la stessa profondità: entrambi funzionano solo se insieme. Cosa c’entra allora il pollo con un fasolaro? Per il palato dello chef di origine russa ma naturalizzato italiano è stato quasi un assaggio mistico, un colpo di fulmine che ha trasformato quel sentore di pelle di pollo, ritrovato a suo dire nel mollusco, in un brodo ridotto fino a diventare gelatina per accompagnare le conchiglie dell’Adriatico: et voilà Coquillage. Senza lasciarsi ingannare dal termine “distillato”, quello di funghi champignon non è per nulla alcolico anche se viene ottenuto da un processo simile che impiegherebbe un alambicco. In questo caso è un’estrazione a caldo che irrora i gamberi rossi crudi, con mandorle al naturale e altre finte riempite di estratto a freddo di teste di gambero rosso. Aspettatevi anche un’ostrica con la sua acqua e brodo di Jamón ibérico oppure un Consommé di sgombro alla brace per pulire il palato e di cui si utilizza ogni parte. Quindi teste, lische e ritagli una volta puliti finiscono sulla griglia e poi sono chiarificati in un brodo dal profumo verace, quasi fosse un pesce alla scottadito. Il suo side è un pasticcino farcito ancora di sgombro.

È nascosto dal “vaporoso” di patate il bollito (di guancia, lingua, testina e zampone) che tradisce le origini sabaude di Paolo Griffa al Caffè Nazionale di Aosta. Presentato all’ospite nell’elegante bowl Raynaud Limoges, questo contenuto viene scoperto solo quando – direttamente al tavolo – il brodo di bue buca la nuvoletta. Ricco di collagene e sali minerali, a cui viene aggiunto del whisky torbato, il brodo di coda di bovino è estratto con l’Ocoo, pentola a pressione coreana con cui lo chef si diverte a fare brodi di volatile, ossidati di fungo o gli estratti di frutta dei sorbetti. Nella cake alla nocciola il brodo di salvia è ottenuto per infusione, prima delle scorze di limone e poi versato sulla salvia fresca tipo tè marocchino per evitare che lasci aromi amari. Rosso brillante è il brodo di barbabietole, trattate sottovuoto proprio per preservarne il colore, proposto a parte durante il servizio dei Berlingots ripieni di Bleu d’Aoste, che trova delle spigolature leggermente terrose e pungenti per via del rafano.

Sono le spezie a dare lo sprint a molte ricette di Francesco Apreda e i brodi non fanno eccezione. Uno dei suoi “Iconic Signature” da Idylio a Roma è anche tra i piatti che meglio rappresentano l’evoluzione dello chef di origini napoletane che dalle sue esperienze in Asia ha estrapolato tecniche e isolato gusti. I Cappellotti di Parmigiano e brodo di tonno fanno da ponte tra Italia e Giappone con un doppio concentrato di umami – l’alga kombu e il formaggio di 36 mesi sono fonti di acido glutammico – mentre il commensale si prepara a un inaspettato sbalzo di temperatura perché se la pasta ripiena è calda, il brodo da cui affiora è ghiacciato, come lo servirebbero i giapponesi in un’umida giornata d’estate. La firma dello chef è l’aggiunta di uno dei suoi Spicy Blend, “Pikkante”, che riproduce il suo shichimi, un mix di sette spezie giapponesi. In chiave “Sapidità Essenziali” è la sua personalissima interpretazione del ragù napoletano che guarda all’India questa volta per le 20 (minimo) spezie lasciate rosolare sul fondo di una pentola prima d’incontrare le tracchiulelle (costine) napoletane che faranno le loro classiche 20 ore di cottura. Alla fine il condimento si presenta ristretto: una sorta di brodo di ragù in cui finiscono di cuocere i maccheroni prima di essere abbrustoliti in padella, da qui il nome “arruscati”.

Nella cultura nipponica il brodo fa la sua apparizione già al momento del benvenuto e ha il compito di predisporre sia il palato che l’anima al pasto. Come? Meglio se caldo, magari a 85 gradi e da bere direttamente in una ciotola giapponese. Accade ai dieci ospiti che ogni sera, alle ore 21 in punto, prendono posto al bancone di Moi Omakase, un piccolo ristorante aperto a Prato dal quarantenne Francesco Preite, in cui si degustano vini e sake durante un percorso al buio costruito da chi in Giappone non è nato ma c’è stato almeno settantadue volte. La sua passione per le armi da taglio dei samurai si è poi trasformata nell’uso delle lame per la preparazione del sushi.

Se nella cucina di Preite tecniche e preparazioni lontane 10mila chilometri si arricchiscono di qualche inflessione toscana, lo chef di origine peruviana Alexander Robles avvicina due continenti da Azotea, cocktail bar con cucina nikkei (ma non solo) che a Torino smuove le contaminazioni dalle Ande al Pacifico, incontrando il gusto italiano tra zuppe e consommé. Tutto già visto? Nient’affatto. Ordinando uno dei signature in menu non si prova solo un brodo, ma si va a ripetizioni di storia, ricordando quando gli immigrati cinesi arrivati sulle coste del Perù nel XIX secolo contribuirono a diffondere in Sud America la cucina chifa, dal cinese chi fan, ovvero mangiar riso. Una testimonianza che si ritrova limpida e saporita nella Sopa Wonton: dashi di katsuobushi, ossa di vitello e costine di maiale, aromatizzato con zenzero, sedano, carota, cipolla, cipollotto, peperoncino aji mirasol, salsa di soia e miso che in una ciotola accoglie taglierini di pasta fresca. Nella città degli agnolotti e del bollito misto, la cucina cinese è considerata sempre meno esotica e lontana dai gusti locali, anche se un’insegna che rinuncia agli ideogrammi potrebbe facilitare una (eventuale) perplessità iniziale.

In questo senso, lascia poco spazio all’immaginazione Tuttofabrodo, format orientale e contemporaneo nel quartiere di San Salvario – non a caso il più multietnico in città – aperto da Elisa Neri, italiana con il pallino per la Cina che del brodo, neanche a dirlo, ha fatto il cuore pulsante del progetto. Sette ore di cottura, monitoraggio costante e ripetuti filtraggi: il brodo usato nel ramen è decisamente una delle preparazioni più complesse e per questo Neri ha deciso di optare per una sola tipologia, di pollo, conosciuta anche come Paitan. Nulla da dire comunque sulla ricetta vegetariana a base di verdure, funghi shiitake, dashi e latte vegetale, nonostante risulti meno densa di quella di carne. Di manzo è invece il brodo dei Xiao long bao, alias ravioli al vapore, che una volta illimpidito ne diventa il ripieno sotto forma di gelatina.

Da Casa Ramen proprio la famosa zuppa di spaghetti di frumento a cui Luca Catalfamo ha dedicato il nome del suo ristorante milanese è emblematica per capire come dare intensità al piatto senza aggiungere sale. Qui brodo e ramen sono un tutt’uno – la tipologia principale è il tonkotsu, a base di maiale – e tutti gli ingredienti sono fondamentali: i noodles, ricetta del Sud del Giappone preparata con una macchina per la pasta italiana, la pancia di maiale arrotolata, cipollotto, cavolo cinese, germogli di soia, l’uovo marinato e la salsa tare fatta in casa versata direttamente nella ciotola modellata in esclusiva dal ceramista Manuele Parati. Il liquido in cui galleggiano richiede molto tempo: 12 ore di cottura, più un giorno di lavoro prima e dopo, ma la grande differenza con i brodi della cucina italiana sta nell’attenzione durante la cottura. Si parte a fuoco altissimo, poi il brodo viene ridotto, c’è sempre necessità di qualche rabbocco e va mescolato ogni 20 minuti. Dopo la prima estrazione, si cuoce nuovamente solo con aglio e zenzero. Non pensate a nulla di limpido: l’aspetto è lattiginoso, denso, quasi simile al latte.

Qualora andaste da Dao Restaurant, a Roma, in occasione del vostro compleanno e ordinaste degli spaghetti in brodo (di terra o di pesce) non dimenticate di informare il nuovo chef Xue Denglong della ricorrenza: il piatto sarà guarnito con un uovo in camicia, simbolo di giovinezza e nuova vita. Basterebbe anche credere che la Zuppa Templare con patate di montagna, funghi di bambù, funghi cinesi, fiori di cordyceps, bacche di goji e asparagi sia un elisir di salute, miracoloso almeno quanto la Zuppa della Signora Song con branzino piccante e zenzero. Famosa in tutto il mondo e risalente alla dinastia Song meridionale, si racconta che la signora realizzò il brodo di pesce per il cognato che, colpito da un forte raffreddore, si riprese immediatamente dopo aver bevuto l’incredibile preparazione. La ricetta è ovviamente top secret.

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In apertura: l’infuso di buccia di patate servito da Emanuele Scarello al ristorante Agli Amici di Godia, in provincia di Udine (foto di Gianni Antoniali)

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