Il turismo sul territorio, nonostante la rottura dovuta alla pandemia, è cresciuto del 44%, come effetto dell’anno vissuto da Capitale Europea della Cultura – nel 2019 – in cui si sono susseguiti 2447 eventi. E anche per celebrare i suoi meriti, Matera sarà presente a Expo Dubai (in apertura a ottobre 2021) in veste di capofila delle Capitali Europee della Cultura. Per raggiungere questo risultato ci sono voluti dieci anni di lavoro serrato, coordinato dalla Fondazione Matera Basilicata 2019: tante sfide sono state vinte, diverse sono ancora aperte e in divenire, come di recente ha ribadito il ministro del Beni Culturali Dario Franceschini suggerendo che al grande incubatore di idee che si è materializzato nella città dei Sassi si potrà attingere come “giacimento di sfide”. Rinvigorita da questa energia, Matera oggi aspira a essere un simbolo dei vari Sud d’Europa, guidata dall’idea di trasformare i limiti in opportunità rigenerative. Mentre fa tesoro della sua storia millenaria. In quest’ottica si inquadra il programma di restauro dei percorsi pedonali turistici nei rioni Sassi, protagonisti pure di recenti ritrovamenti (un edificio sacro affrescato del XVI secolo, dissotterrato nell’area di Porta Pistola, punto di incontro tra i rioni Barisano e Caveoso) che contribuiscono a intensificare il valore di un patrimonio antichissimo, fatto di testimonianze materiali e immateriali affastellate nel tempo a comporre l’identità di Matera e di chi la abita oggi.
Come il pane che porta il nome della città, quello riconosciuto e tutelato da un disciplinare Igp ottenuto nel 2008, in origine preparato in casa dalle famiglie che abitavano i Sassi, e poi portato a cuocere nei forni pubblici, nel rispetto di turni scanditi dal libro delle vecitate, l’elenco per assicurarsi un’infornata settimanale presso il fornaio del vicinato, cui le novelle spose si preoccupavano subito di iscriversi. All’epoca, la città era piena di forni, vissuti come uno spazio sociale dove scambiare chiacchiere, notizie e pettegolezzi: l’attesa della propria forma – marchiata con un timbro di famiglia (u marchj) per riconoscerla in uscita dal forno – poteva protrarsi fino a tre ore; il sabato era il giorno più gettonato, ma quotidianamente il rito della cottura si consumava quasi fosse un cerimoniale collettivo, per questo ancora tanto legato alla cultura del luogo. Al Rione San Biagio, il Forno di vicinato – conosciuto anche come U firn d Salètt – porta memoria di queste consuetudini indimenticate: restaurato dalla Fondazione Sassi, fino al 1954 l’antico forno del Sasso Barisano era amministrato da Michele Tagarelli (detto Salétt), sempre pronto a cuocere il pane che ogni famiglia preparava ogni settimana impastando fino a 15 chili di farina. Oggi lo spazio ospita attività didattiche e laboratori di panificazione.
Le cose, infatti, cambiarono repentinamente alla metà degli anni Cinquanta, con la legge speciale per lo sfollamento dei Sassi firmata da Alcide De Gasperi proprio nel ’54: due anni più tardi, un primo piano regolatore moderno avrebbe sancito la nascita di nuovi quartieri, più salubri e confortevoli, per 15mila sfollati (nell’86, invece, sarebbe iniziato il recupero dei Sassi, dal 1993 patrimonio riconosciuto dall’Unesco). Venuto meno il sistema delle “bolle” di vicinato, molti forni pubblici chiusero i battenti, altri si trasformarono in luoghi di produzione e vendita più simili ai nostri panifici odierni. Immutato, però, restò il procedimento tradizionale di preparazione del pane di Matera. A identificarlo senza timor di smentita, ancora oggi, è la caratteristica forma a cornetto (in alternativa, c’è la pagnotta “a montagna”, la forma alta con cocuzzolo sulla sommità) con tre punte croccanti che svettano sulla grande pezzatura, che può arrivare a pesare fino a 10 chili (il formato più piccolo, volendo rispettare la tradizione, ne pesa 3: il pane, sulla tavola contadina, doveva bastare per parecchi giorni e la famiglia era numerosa).
Per realizzarlo si utilizza semola di grano duro rimacinata – che conferisce il caratteristico colore giallo alla mollica – di cui almeno il 20%, per disciplinare, proviene da ecotipi locali e vecchie varietà coltivate da secoli nel territorio delle colline materane. Per la lavorazione si utilizza il lievito madre. La cottura in forno a legna restituisce una crosta croccante, di colore bruno-dorato; il profumo è altrettanto peculiare, come pure la capacità di mantenere a lungo la fragranza, a patto di conservare il pane correttamente, in un sacchetto di carta o avvolto in un panno di stoffa, perché respiri.
In via Santo Stefano, dove la sede storica è in attività del 1918, Pane e Pace custodisce questa tradizione. Il panificio è amministrato da quattro generazioni dalla famiglia Perrone: oggi Lucia e suo marito Giacinto producono ancora il pane di una volta, manipolato appena prima di entrare in cottura, nel forno alimentato con legna di sottobosco. Il brand ha acquisito grande credibilità, e il negozio di via Cererie, adibito alla vendita diretta, propone – oltre al pane a cornetto in grandi pezzature – molte altre specialità locali, dai ficcilatidd (i taralli materani) alla strazzata dolce. Tutto disponibile anche per l’acquisto online.
L’altro indirizzo da cercare in città per ritrovare le radici di questa espressione tanto concreta e longeva della civiltà contadina locale è la bottega Mancini Timbri del Pane. Nel laboratorio di via Buozzi, al Sasso Caveoso, ancora si realizzano a mano i timbri in legno legati all’usanza di personalizzare le proprie forme con un marchio tipico, che in passato poteva riportare semplicemente le iniziali di famiglia o prevedere simboli grafici intagliati, tra gli altri, dai pastori durante le lunghe giornate trascorse al pascolo, con motivi beneaugurali come il gallo, associato all’idea di abbondanza e fertilità. A riprendere la tradizione, ormai più di vent’anni fa, è stato Manuele Mancini, restauratore ed ebanista, che oggi realizza questi timbri anche su richiesta personalizzata.
La Cialledda, colazione contadina
La Cialledda è una zuppa di recupero fatta con pane raffermo lasciato ammollare e condito con patate, cipolla, erbette spontanee della Murgia – soprattutto asfodelo giallo – o rape. Nella versione fredda è conosciuta anche come “colazione del mietitore”, in passato consumata dai braccianti all’inizio delle lunghe giornate di lavoro estivo nei campi, e arricchita con pomodori maturi e origano.