Nel 2022, in occasione dell’uscita della settima stagione di Chef’s Table dedicata alla pizza, il regista Brian McGinn dichiarò di non voler mettere a confronto questo mondo con il fine dining perché “sono cose diverse”. Da Massimo Bottura – primo protagonista della stagione numero uno della serie di documentari sviluppata per Netflix – a Franco Pepe e Gabriele Bonci – gli unici due pizzaioli italiani interpellati per le puntate “lievitate” del programma –, dalla cucina d’autore alla rivoluzione degli impasti, il racconto dal 2015 si è spostato su uno dei cibi più amati al mondo, la pizza, appunto, di cui oggi ricorre il Vera Pizza Day.
Al di fuori del piccolo schermo, però, possiamo notare diversi punti di contatto tra chef e pizzaioli, non solo con jam session, serate a quattro o più mani, collaborazioni e spin off, ma con vere e proprie incursioni del “disco” lievitato nei menu dell’alta ristorazione. Famosa è la pizza al contrario della chef Rosanna Marziale a Caserta, un signature creato più di dieci anni fa che non prevede l’uso di farina e lievito: la ricetta è infatti solo a base di mozzarella di bufala campana Dop, pomodoro San Marzano, pane tostato e basilico. Di questo piatto sono poi nate altre versioni, dalla puttanesca con tarallo nzogn e pepe alla datterini gialli e rossi, basilico, fiocchi di ricotta e fresella, ma c’è anche quella di mare, pepe e limone. Ha giocato tra illusione e memoria il bistellato siciliano Pino Cuttaia de La Madia per la sua pizzaiola che restituisce dignità al merluzzo, affumicato con la pigna, stretto in un abbraccio da un cornicione e nascosto da una spuma di patate.
Nell’incalzante successione di amuse-bouche , il giovane e talentuoso chef di Imàgo, Andrea Antonini, propone anche una pizza senza glutine lavorando acqua di pomodoro aromatizzata con una infusione al basilico, origano e pepe nero che viene trasformata con una metilcellulosa e montata in planetaria come fosse una meringa. E se già fosse audace servirlo come spicchio in miniatura, a rendere ancora più dissacrante l’esperienza – perché siamo pur sempre in uno dei luoghi simbolo dell’ospitalità capitolina a cinque stelle – è il mini-cartone in cui si scopre la fetta, quasi fosse stata ordinata per il delivery. Altrettanto gluten free è la bruschetta alla pizzaiola dell’unico stellato nella provincia di Cremona, Michele Minchillo, che da Vitium sovrappone in forno sfoglie di riso, pomodoro fresco, olio, sale, pepe e origano strizzando l’occhio alla tonda marinara.
Dichiara la sua provenienza già nel nome di uno dei menu degustazione Roberto Di Pinto, napoletano doc (come ribadisce nella biografia sul sito di Sine by Di Pinto) che a Milano interpreta la sua regione natale attraverso piatti contemporanei, senza rinunciare naturalmente a dire la sua in fatto di pizza. Nel percorso “Sine senza confini” prima del risotto esce infatti il raviolo di pizza, nato dopo settimane di sperimentazione “per colpa” di un pacchetto di patatine al gusto pizza aperto dalla moglie all’aeroporto di Ibiza. In questo caso l’impasto c’è, ma è ottenuto miscelando solamente acqua e farina, come per i ravioli capresi, trattati però alla maniera dei gyoza, quindi prima cotti a vapore e poi tostati in padella per renderli croccante. L’ultimo passaggio è sotto al cannello che abbrustolisce il bordo per dargli le sembianze di un vero cornicione. In uscita c’è l’aggiunta di pomodoro cotto leggermente, una foglia di basilico e un giro di olio extravergine d’oliva.
Complice forse la medesima regione di provenienza (la Campania), alla stessa forma ha pensato anche Ciro Alberto Cucciniello, chef e patron di Carter Oblio a Roma che inserisce il suo raviolo gusto pizza tra i riusciti piatti-camouflage – da provare la costoletta di carne che in realtà è una battuta o il babà alla pastiera che racchiude due dolci in uno. L’aspetto è quello di una mezzaluna realizzata con l’impasto della pizza a pasta acida, con il lievito madre della casa, richiusa a mo’ di panzerotto e bollita come un tradizionale raviolo. Da mangiare con coltello e forchetta, il ripieno di questo primo piatto è al gusto pomodoro del Piennolo fresco, basilico e Parmigiano Reggiano 30 mesi. Sulla base si trova una salsa di pomodoro sempre coltivato alle pendici del Vesuvio che in questo caso viene fatto ritirare sulla brace affinché assorba il fumo del forno a legna, poi sfere di fiordilatte di Agerola, Parmigiano Reggiano, basilico fresco del loro orto e altro pomodoro passato direttamente sul fuoco. Il raviolo viene fiammeggiato al cannello per riprodurre la bruciacchiatura del cornicione fumante e restituire l’atmosfera olfattiva di una pizza appena sfornata. Direttamente al tavolo vengono aggiunti olio artigianale di brace affumicato al legno di faggio e quello al basilico: chiudendo gli occhi il profumo sarà quello di una margherita. Una preparazione servita, ça va sans dire, su piatto da pizza.
Per Michelangelo Mammoliti la pizza diventa un dessert vegetale. A La Rei Natura, dove lo chef con il Boscareto ha ottenuto le due stelle Michelin in un solo colpo e in tempi record, il disco lievitato viene sostituito da un “cuscinetto” di pasta fillo, farcito con una spuma di mozzarella di bufala, ricoperto da pomodori piccadilly e albicocche confit e da una salsa di albicocche cotta come fosse un coulis di pomodoro, con basilico e origano. Il dolce viene completato con polvere di carruba e di pane bruciato, diverse varietà di basilico e origano e, a parte, un sorbetto di pomodori alla brace con un croccante di pane, sale Maldon e olio Micu di Olearia San Giorgio. Omaggia il territorio Enrico Marmo con la sua interpretazione della sardenaira, street food della Riviera Ligure noto anche come pissalandrea che, se nella ricetta originale prevede salsa di pomodoro, olive taggiasche, capperi, cipolle, acciughe, origano, ai Balzi Rossi si trasforma in focaccia lievitata per 24 ore e farcita di un condimento che, al momento del servizio, rimane liquido. L’abbinamento ideale? Per il sommelier Lorenzo Moraldo un boccale di saison, magari del birrificio Nadir con foglie di ulivo taggiasco della Valle Argentina del frantoio Roi di Badalucco, sempre in provincia di Imperia.
Colta è la citazione a tema pizza di Marco Ambrosino che da Sustanza si lascia ispirare dal lahmacun, anche conosciuto come pizza turca, una ricetta della tradizione medio-orientale in cui un pane, preparato con solo acqua e farina, viene condito con scarti di carne ovina, pomodoro, cipolla e spezie locali. Partendo da questo piatto, lo chef sostituisce questa simil piada con del pane kosho (riprende lo yuzu koshō, salsa della tradizione nipponica a base di peperoncino, sale e buccia di yuzu), una preparazione a base di pane raffermo, fatta fermentare con spore e poi addizionata di bucce di agrumi e peperoncino. Ad accompagnare l’impasto è della carne di agnello cotta nel mirto e finita sulla griglia, condita con fondo di ossa di agnello, foglie di tagete, composta di limone e incenso, il cui binomio di profumi richiama quello che si può apprezzare tra le strade di Istanbul. Completa il piatto una piccola tajine di erbe cotte alla brace, condite con petali di rosa, una focaccia al carbone con ragù bianco di interiora di agnello, assiette di salagioni di ritagli d’agnello (salame di pecora, agnello al sommacco, carré di agnello stagionato, ‘nduja di agnello), accompagnati da cetriolo fermentato e un fico in conserva sott’aceto.
Nella Campania Felix di Taverna Estia, new entry è l’omaggio a “Ciccio e Sasà”, alias i fratelli Martucci, celebrati da un’altra coppia di fratelli, gli Sposito – Francesco è lo chef, Mario invece maître de maison e sommelier – che nel loro fine pasto trasformano il babà in pizza. Si tratta di una proposta per minimo due persone che arriva a tavola già spicchiata e in cui sono presenti tutti gli ingredienti canonici di una base rossa con mozzarella, quindi fior di latte, pomodoro confit, olio al basilico e finocchietto selvatico enfatizzato dal liquore Strega e raccolto nel loro erbolario allestito nel dehors – il giardino di erbe aromatiche segna proprio l’ingresso al ristorante in provincia di Napoli –, per un morso sempre nel segno di una cucina moderna e creativa che non dimentica le origini. Del resto, siamo pur sempre all’ombra del Vesuvio.