Se non avete mai sentito parlare di Pietraroja – piccolo borgo in provincia di Benevento, a 818 m s.l.m. – due sono le cose: o non siete appassionati di archeologia e geologia, oppure non siete amanti del prosciutto (o entrambe le cose). Il paese arroccato sul costone orientale del monte Mutria, che segna il confine tra la parte beneventana e quella molisana della catena del Matese, e dunque dell’antico territorio sannita, è infatti giustamente famoso soprattutto per due motivi: qui nei dintorni, nel 1980, un paleontologo “dilettante” veneto ritrovò quello che fu poi battezzato “Ciro”, piccolo fossile di un cucciolo di dinosauro Scipionyx samniticus – il primo ritrovato in Italia – risalente al Cretaceo inferiore, di cui si sono conservati persino tessuti molli e resti organici. Oggi conservato presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Benevento e Caserta (e da poco esposto con grande successo a Tokyo), Ciro è diventato in qualche modo la mascotte della cittadina, e dell’interessante Paleolab, museo multimediale di geologia e paleontologia alle sue porte (purtroppo attualmente chiuso).
Ma, ben prima di questa fondamentale scoperta, il nome di Pietraroja era finito sugli annali del Regno di Napoli per tutt’altra faccenda, che riguarda appunto il prosciutto. Risale al 1776 un documento in cui il Duca di Laurenzana di Piedimonte commissionava una fornitura di “prigiotta” da Pietraroja: la parte più pregiata del maiale, da cui deriverebbe il termine prosciutto. E il prelibato salume è raffigurato anche in quadri e illustrazioni d’epoca.
L’aria pura del luogo e le case del borgo di montagna, costruite in modo da difendersi dal freddo pungente e secco degli inverni sanniti, creavano infatti le condizioni ideali per la stagionatura del prosciutto, cosa abbastanza rara nel Meridione d’Italia dove la tradizione annovera soprattutto altri tipi di salumi e insaccati come capocolli e salsicce, meno bisognosi di cure e condizioni particolari. Forse anche sull’eco della fama di Ciro, Slow Food lo aveva inserito nella sua Arca del Gusto ed è stato iscritto nel registro dei PAT, Prodotti Alimentari Tradizionali della Campania. Eppure, all’inizio del secondo millennio di questo prosciutto leggendario si poteva solo sentir parlare: la produzione, laboriosa e impegnativa, era stata quasi totalmente abbandonata ed era diventata “illegale”, secondo i regolamenti UE.
Si deve alla caparbietà e alla passione di Emilio Di Biase se invece oggi possiamo tornare ad assaggiarlo, anche se per farlo bisogna arrampicarsi fino al borgo sannita e sedersi ai tavoli della Prosciutteria di Pietraroja (o riuscire ad accaparrarsi uno dei rari prosciutti interi stagionati per due anni e spediti su anticipatissima ordinazione), godendosi un bel pranzo o una cena in cui il prosciutto appena affettato – ce ne sono sempre due aperti, per far assaggiare i differenti punti come il fiocco e la culaccia, più grassa e marezzata – è accompagnato da proposte come le castagne caramellate con il lardo, i carrati (pasta acqua e farina tirata con il filo di ferro) con il sugo della domenica arricchito da cotica e nnoglia (gustosa salsiccia di parti di scarto), e la guancia stracotta in un ambiente piacevolmente rustico e decisamente peculiare, visto che tra la cantina e la soffitta tutto parla di prosciutto.
Nato nella vicina Cusano Mutri, famosa per la Sagra dei Funghi autunnale oltre che per il bel centro storico, Di Biase ha vissuto e lavorato a lungo come medico di base fuori regione, e in particolare in Valle d’Aosta, dove ha avuto modo di capire quanto le risorse enogastronomiche fossero preziose per il turismo e l’economia locale. Ma fu una visita da Eataly, all’epoca della sua prima apertura al Lingotto di Torino, a fargli accendere la lampadina: «Tra i prodotti simbolo di ogni regione italiana, per la Campania avevano scelto di mettere sulla mappa proprio il prosciutto di Pietraroja: un grande orgoglio, per me, eppure paradossalmente era un prodotto che non esisteva quasi più». Così, si è messo in testa di farlo rinascere. Ormai 12 anni fa, rientrato nella sua terra, ha iniziato la battaglia contro la burocrazia che rendeva difficile produrre il prosciutto se non per il consumo familiare: «I regolamenti UE ne vietavano alcune parti della lavorazione, e anche la ASL aveva rifiutato la mia domanda. Ma l’iscrizione del Prosciutto di Pietraroja tra i PAT ne attestava lo status di prodotto tradizionale, per cui è prevista la deroga se si rispettano le condizioni originali di produzione, come l’uso di materiali naturali nei locali. Il che era esattamente quello che volevamo fare».
Di Biase, aiutato dal figlio Lorenzo, ha infatti ristrutturato un’antica casa del borgo mantenendone struttura e funzioni: al piano terra, oltre alla sala da pranzo e al bancone con esposte varie squisitezze a base di carne suina, c’è la vecchia cucina in cui brucia la legna di quercia e faggio (cui Emilio aggiunge anche qualche foglia di alloro e mirto) che, salendo lungo l’apposita canna, porta nelle sale superiori – dove un tempo si svolgeva la vita quotidiana delle famiglie, per approfittare della luce che entrava dalle finestre posizioniate più in altro dei vicoli bui – tepore e fumo. Se il primo piano ospita infatti una piccola ma interessante esposizione di cimeli contadini e foto d’epoca, arrivando al piano superiore si è accolti dal profumo dei prosciutti stesi ad asciugare per circa una settimana dopo una breve sosta nella camera dove il fumo della legna in arrivo da giù dona alla carne una leggera ma caratteristica affumicatura aromatica. «Non è prevista dalle indicazioni del PAT ma ho voluto ricreare quella sensazione di “fumo” che prendevano i prosciutti stagionando nelle case, accanto al camino o ai bracieri dove si facevano bruciare legnetti e qualche torsolo di granturco», spiega Di Biase.
Prima, ci sono naturalmente la salatura – non eccessiva, che dura circa 20 giorni e avviene nel cosiddetto timpano, un ripiano concavo che ne raccoglie i liquidi – e la pressatura: le cosce rifilate dei maiali – oggi i Di Biase usano quelli frutto di incroci tra le razze Large White, Durok e Nero Casertano allevati allo stato semibrado tra Campania e Molise – vengono infatti schiacciate per alcuni giorni sotto una sorta di torchio, o pressa, in modo da far uscire sangue e acqua e ottenere un prosciutto dall’aspetto rugoso e irregolare ma perfettamente asciutto e integro all’interno, con una carne compatta e gustosa. Tradizionale della lavorazione locale è l’assenza di gambetto (perché una volta si usavano anche quelli, per insaporire sughi e minestre) e di “stuccatura” sulla parte non protetta dalla cotenna.
Infine, i prosciutti – affiancati da culatelli, salami e capocolli – affrontano almeno 24 mesi di stagionatura naturale nel “caveau” al piano inferiore dove un sistema di finestrelle contrapposte, affacciate sul vicolo che anche in estate rimane ombreggiato e fresco, garantisce la giusta ventilazione: «Per maturare al punto giusto, a Pietraroja il prosciutto ha bisogno di passare almeno due anni perché durante gli inverni, a causa del freddo, la stagionatura si blocca», racconta ancora Emilio. Una volta pronti, passano poi nella piccola fossa adiacente che oggi si può guardare dall’ingresso della Prosciutteria tramite una grossa lastra di vetro, dove roccia, paglia e sale e un minore ma costante arieggiamento danno l’ultimo tocco a questa prelibatezza.